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venerdì 23 giugno 2006

Per la democrazia




100 blog uniti in difesa della Costituzione

Lettera congiunta alla
Democrazia e alla Costituzione
che da oggi fino al 26 giugno verrà pubblicata
 dai bloggers aderenti all'iniziativa.

Cara Democrazia, cara Costituzione,
stai per compiere sessant’anni. Non ti arrabbierai se alcuni giovani hanno voluto scriverTi questa lettera, forse scavalcando i protocolli d’occasione, per parlarTi di una loro grande paura. Hanno deciso di farlo così, prendendo carta e penna, per manifestarTi la loro vicinanza ed il loro affetto e difendendoti da chi oggi, impropriamente, ha deciso di minare le Tue basi. (A. Cimadomo)

Grazie per averci dato la sovranità educandoci agli insegnamenti che, giorno dopo giorno, ci fanno essere soggetti pensanti proiettati verso un mondo libero da pregiudizi ideologici e ostruzioni dittatoriali . Cara Costituzione, sei stata venerata dalle masse e stuprata dai potenti ma sappi che c’impegneremo fortemente affinché tu possa continuare a formare le generazioni. (Dome)

Leggiamo nell’articolo 3 che è possibile trasformare le utopie del diritto naturale in utopie del diritto positivo, cioè vedo che si demanda alla Costituzione il potere di cambiare le sorti di classi sociali svantaggiate, rimuovendo ostacoli di ordine sociale e materiale. Come altre costituzioni coeve (quella francese, quella tedesca, la Dichiarazione dei Diritti universali dell’uomo) nasce come figlia della tragedia della shoa.
Molti dicono che abbia rapporti stretti con quei venti mesi chiamati Resistenza, guerra civile, guerra di liberazione nazionale, lotta di classe; la maggior parte degli ideali di questa parte della storia italiana passarono direttamente nella Costituzione, in primis uguaglianza e democrazia. (S. Ragone)

Cara amata Costituzione, che nel tempo non invecchia mai, voglio parlarti in nome di tutte quelle donne che hanno combattuto contro la tirannia dell'oppressore, che hanno sacrificato la loro giovinezza per un grande ideale: la libertà.
Voglio parlarti di quelle donne che hanno silenziosamente sofferto senza un lamento, portando dentro di se un dolore immenso, il dolore di chi vede i propri cari andarsene per sempre. (Galatea)

Cara Costituzione, per farti nascere i nostri nonni da giovani ti hanno regalato i loro anni migliori, in molti hanno sofferto, e in molti sono morti tra pene indescrivibili per mano di chi aveva paura dei tuoi valori e dell'espressione di libertà e uguaglianza che porti con te. Sei nata per sancire e affermare i diritti delle persone, sei nata dal dolore dal pensiero libero dalla speranza infusa dalla fede sia politica che Cristiana, dal valore di chi ha creduto in un futuro migliore di chi ci ha creduto fino in fondo per regalare a tutti noi loro figli e gente di oggi la gioia e l`orgoglio di appartenere ad un'Italia libera, democratica, e antifascista. Vorrei che molti ti conoscessero di piu`e vivessero coscienti dell`importanza che porti con te nel difendere i nostri diritti nel tutelare i nostri valori, nel difenderci dalle discriminazioni, nel capire quanto sia importante e bello vivere in questa società libera, in una democrazia. (Elio)

Non farti limitare, noi ti aiuteremo, votando il fatidico "NO" del vero tifoso, perché più stai larga e più stai comoda e meglio è per tutti noi. Però intendiamoci. Dopo questa prova, (che vinceremo insieme, stai tranquilla) dobbiamo darci da fare insieme. A volte sei troppo silenziosa e poco critica. Così le persone, dopo poco, si abituano a te e cominciano a comportarsi come se fossi un dato acquisito. Insomma, la gente fa il callo alla sua libertà ed è triste perché è come fare il callo al cuore e non essere più capaci d’innamorarsi.
Restiamo così, ci vediamo tra il 25 e il 26, diciamo "NO"( così ti abitui ad essere anche un po’ più ferma) al cambio della tua carta d’identità, e poi, davanti ad un aperitivo, invece di ricordare i tempi della tua giovinezza facciamo il piano per il prossimo anno. OK? Saluti. (Mr. Pol)

p.s. e qui ci sono gli amici di http://sonounindegno.splinder.com !!

giovedì 22 giugno 2006

Per la Costituzione


Per chi vota NO
come noi ci sono altri blog freschi freschi e nuovi di zecca:
http://chitifaitaliavotano.ilcannocchiale.it/
http://sonounindegno.splinder.com/
occhio ai dentisti ;-) e fate girare la nostra ultima opera TUTTE LE RAGIONI DEL NO

Genio pontieri


Più posti con i traghetti che con il Ponte

Gli economisti sono convinti che il grande
investimento sul ponte per Stretto di Messina
abbia effetti trascurabili sull’occupazione,
mentre al contrario, l’alternativa dei servizi di
navigazione darebbe risultati migliori.
Nello studio presentato dalla Stretto di
Messina S.p.A. non compare un raffronto tra
l’occupazione attivata per il Ponte e i posti di
lavoro che si prederebbero nella navigazione.
Una valutazione che invece l’Advisor ha
fatto, mettendo in risalto gli effetti negativi
dopo 5 anni d’esercizio: “Il quadro degli
effetti occupazionali diretti, nel caso di
scenario con Ponte, mette in luce una perdita
di posti di lavoro, 1.234 addetti fra i lavoratori
dl traghettamento, che non viene recuperata,
se non parzialmente, perché il Ponte è in
grado di generare solo circa 480 posti di
lavoro. La perdita netta è, quindi di 764 posti
di lavoro”. L’Advisor arriva a conclusioni
diverse in caso di potenziamento di servizi
d’attraversamento multimodale (treni o
automezzi più traghetto), che darebbe un
incremento occupazionale di circa 1.100
addetti. Sempre secondo l’Advisor saranno
impiegati molti tecnici provenienti dal resto
del paese e dall’estero. Secondo la società di
Calarco e Zamberletti, invece la fase di
cantiere attiverà posti nelle costruzioni e nel
commercio: però, è difficile credere al loro
studio quando prevede folle di turisti amanti
dei grandi Ponti riempire fino a 180 nuovi
alberghi sulle coste dello Stretto. Ma quale
turista vorrà soggiornare su coste distrutte da
almeno 8 anni di cantieri, cave e discariche?
Per saperne di più

Postato dal coblogger Condorbianco

martedì 20 giugno 2006

Per la democrazia e la Costituzione



 

REFERENDUM COSTITUZIONALE DEL 25 E 26 GIUGNO 2006
TUTTE LE RAGIONI DEL NO
















Anno 2006

INTRODUZIONE


Mancano ormai meno di due settimane ad un altro appuntamento elettorale: il referendum costituzionale  del 25 e 26 giugno 2006, ultimo appuntamento elettorale della stagione.
Per le sue caratteristiche, che ci proponiamo di descrivere più in dettaglio in questo manoscritto, e per i gravissimi rischi per l'unità della Patria, la Democrazia, e i Diritti Civili, nonché per gli immensi sprechi economici che tale riforma comporterà, rivolgiamo un appello a tutti gli elettori affinché si pronuncino numerosi contro questo scempio.

E' da ritenere che il referendum sarà un momento storico di portata paragonabile, per gravità e importanza delle minacce che saremo chiamati a sventare, a quello per scegliere tra Monarchia e Repubblica del 1946.
Abbiamo raccolto i contributi di eminenti costituzionalisti oltre che le opinioni di cittadini allo scopo di rendere chiara a tutti la situazione che s’instaurerebbe se malauguratamente tale riforma passasse la consultazione popolare.

Ad oggi manca purtroppo una concezione della gravità di questa riforma su taluni aspetti inerenti alla gestione della pubblica amministrazione; è necessario far capire a tutti i dotati di buon senso che tale consultazione popolare ha poco a che vedere coi contrasti politici tra le compagini rappresentanti la maggioranza e l’opposizione in parlamento, in quanto la posta in gioco è la Democrazia del nostro Paese.
La critica su tale riforma è articolata, pertanto per renderla leggera abbiamo pensato di mettere in evidenza le opinioni di alcuni cittadini che tramite i forum e i blogs hanno dato dei contributi semplici ma molto diretti, per poi passare alle analisi molto complesse di illustri giuristi e costituzionalisti nonché il discorso al senato dell’allora Senatore Giorgio Napolitano sulla discussione del disegno di legge costituzionale: Modifiche alla Parte II della Costituzione durante la seduta del 15 novembre 2005.

La finalità di questo opuscolo è quella di crearsi un’opinione sulla base di dati e resoconti, opinione data da un confronto costruttivo di diverse fonti, e soprattutto quelle di fare intendere le ragioni inequivocabili del NO al referendum del 25 giugno.
Per contro la propaganda del comitato per il SI e di quella parte della CdL sostenitrice della loro riforma si basa su un decalogo scritto da Calderoni, ampiamente discusso nei pro e nei contro nel seguente manoscritto, e su una denigrazione del Sen. Oscar Luigi Scalfaro, che presiede il comitato del NO, da parte di quei signori con lo slogan “Cambiereste la Costituzione scritta da quest’uomo? (per saperne di più http://www.ricontiamo.com).

Per la realizzazione di tale manoscritto vi è un lavoro di squadra non indifferente di molti utenti del forum http://destriesinistri.forumfree.net/ in particolare: Fabio0485, @jfk@, e tanti altri, un vivo ringraziamento và ad Andreyews per aver messo a disposizione tempo e altro per il forum destri e sinistri, spazio in cui si ha uno scambio di idee in maniera costruttiva anche tra utenti simpatizzanti per compagini politiche opposte.

L’approvazione di una riforma “epocale”

L'approvazione della Riforma Costituzionale, salutata da un coro pressoché unanime di critiche da parte di costituzionalisti e di commentatori su giornali non pregiudizialmente schierati,merita alcune riflessioni.
Per molti di noi che siamo cresciuti e siamo stati educati, alla politica con il culto dell'Assemblea Costituente e che abbiamo studiato e ammirato il clima di quei giorni, è oggi necessario rivolgere una particolare attenzione ad una riforma Costituzionale che mette a serio rischio la democrazia del nostro Paese e il valore dell'unità nazionale.

A distanza di 56 anni dal compimento di quel vero e proprio capolavoro che fu la Costituzione Repubblicana, realizzata grazie alla grande capacità dei nostri Padri Costituenti di distinguere lo scontro politico quotidiano, le differenze ideologiche dal lavoro comune nello scrivere le regole della rinata democrazia italiana, si può pensare di rinnovare al massimo qualche punto della nostra Costituzione, ma non di stravolgere le idee che ne sono alla base : l'unità degli italiani e una democrazia fondata sui partiti e non sul primato dei singoli << vedi il fenomeno del berlusconismo>>.

Un lavoro, quello, che ha visto collaborare in maniera costruttiva i Padri della Repubblica << De Gasperi, Croce, Einaudi, Nenni, Calamandrei, Mortali, Togliatti, Di Vittorio, Dossetti e i giovanissimi Giulio Andreotti ed Emilio Colombo, oggi Senatore a Vita ed emblema della nostra terra>> accomunati tutti dallo ''spirito Costituente'', dalla voglia di Libertà, di Pace e di giustizia sociale. Lavorare su un testo Costituzionale scritto e approvato dai partiti che insieme avevano condiviso l'esperienza del Comitato di liberazione nazionale: democristiani, comunisti, socialisti, liberali e azionisti, significa avere la consapevolezza che anche cambiare una parola, pesare un aggettivo, spostare una virgola può determinare un futuro diverso per lo Stato e per intere generazioni.

 Non sono pochi gli storici, i costituzionalisti di ogni orientamento politico, gli uomini delle istituzioni, da Scalfaro a Cossiga, che dissentono amareggiati nel vedere il testo della Costituzione trattato come merce di scambio finalizzata a tenere disperatamente insieme una maggioranza logorata, divisa, senza più alcuna missione visibile per il Paese, priva di quella determinazione e coesione mostrata quando dovevano ad ogni costo, essere approvate le ''leggi vergogna'' sulla giustizia, meglio ricordate come ''leggi ad personam''.

La Riforma Istituzionale , approvata alla Camera dalla Casa delle Libertà e fortemente voluta dalla Lega di Bossi, mina l'uguaglianza dei diritti tra tutti gli italiani, alcune norme sviliscono i poteri attribuiti al Presidente della Repubblica facendo venir meno il suo ruolo di garante della Costituzione e dei Cittadini.
Alcuni suoi poteri fondamentali, come quello dello scioglimento delle Camere, passerebbero nelle mani del Capo del Governo, rendendo di fatto il Parlamento Italiano uno strumento alla mercè del Governo stesso.

Il disegno di legge introduce il Senato Federale e la cosiddetta ''devolution'' che trasferisce alle regioni la piena competenza in materia di sanità, scuola e polizia locale. Rischiamo in tal modo di avere venti sistemi scolastici e sanitari diversi, uno Stato frammentato ma controllato da un solo potere quello del Capo del Governo.
Rischiamo cioè di vedere l'Italia nei panni di Arlecchino.
Non è questa l'idea che avevano i nostri Padri Costituenti e non è questa l'idea che abbiamo noi dell' Italia.
Oggi è pressoché attuale il messaggio di uomini come Calamandrei, che nel 1951 pronunciò un discorso sulla Costituzione rivolto soprattutto ai giovani e analogamente fece Dossetti nel 1994, quando lanciò un appello per la difesa dei valori della Costituzione Repubblicana.

 scritto da 
degasperipiange utente del forum de "Il termometro politico"

 

IL COMITATO “SALVIAMO LA COSTITUZIONE!”

Se ne parla ancora troppo poco, ma il 25 giugno il Popolo Italiano sarà chiamato ad una scelta drammatica: confermare o abolire la riforma costituzionale approvata lo scorso autunno dal centrodestra. Per le sue caratteristiche, che ci proponiamo di descrivere più in dettaglio in questo blog prossimamente, e per i gravissimi rischi per l'unità della Patria, la Democrazia, e i Diritti Civili, nonché per gli immensi sprechi economici che tale riforma comporterà, rivolgiamo un appello a tutti gli elettori affinché si pronuncino numerosi contro questo scempio.
E' da ritenere che il referendum sarà un momento storico di portata paragonabile, per gravità e importanza delle minacce che saremo chiamati a sventare, a quello per scegliere tra Monarchia e Repubblica del 1946.
Vale la pena di ricordare a tutti gli elettori e le elettrici che, trattandosi di referendum costituzionale, non è soggetto al famoso quorum del 50%+1 di votanti perché il suo esito sia valido.
Solo per riassumere in breve lo sfascio civile, istituzionale ed economico che la riforma (se confermata dal referendum), porterà, riportiamo qui un breve stralcio, dal sito www.salviamolacostituzione.it  
Perché diciamo no a questa riforma
 1) Perché avvierà il paese verso il caos legislativo.
 Basti pensare che il nuovo testo suddivide le leggi emanate dal Parlamento in tre diverse categorie: quelle votate solo dalla Camera, quelle votate solo dal Senato e quelle che dovranno essere approvate da entrambi i rami del parlamento. Un intrico di commissioni e commissioncine avrà l´incarico di dirimere i casi, più che probabili, di dubbia attribuzione.
Vi saranno inoltre provvedimenti di un quarto tipo: quelli che, essendo ritenuti essenziali per l´attuazione del programma di governo, potranno essere varati nonostante il voto contrario del Senato, alla condizione di avere ottenuto l´approvazione della maggioranza assoluta della Camera. Chiaro, non è vero? Giudichino i cittadini se questo è il modo per semplificare ed accelerare il processo legislativo.
  2) Perché attribuirà poteri eccessivi al Primo ministro.
  •   Nella Corte Costituzionale aumenteranno i membri di nomina parlamentare, con conseguente riduzione dell’autonomia rispetto al potere politico. 
  •  Nel Consiglio superiore della magistratura potranno essere nominati dal parlamento anche personalità puramente politiche, senza alcun vincolo di competenza giuridica, il che ne svilirà l´autorevolezza.  
  • La figura del Presidente della Repubblica, cui verrà tolta l´attribuzione di sciogliere le camere, risulterà fortemente indebolita. Il potere di concludere anticipatamente la legislatura viene di fatto consegnato al Primo ministro. E´ pur vero che la Camera ha la possibilità di designarne un altro, ma solo con l´appoggio dell´originale maggioranza. I voti dei deputati dell´opposizione, quindi, non avranno più lo stesso valore di quelli della maggioranza: anche in Parlamento i voti andranno pesati e non contati.
  • Il potere del Primo ministro risulterà enormemente aumentato e libero da qualsiasi "contrappeso".
 3) Perché introdurrà disparità di diritti tra cittadini di regioni diverse.
 Quando la devolution sottrarrà risorse e possibilità operative alle Regioni in materia di salute, scuola, assistenza, fiscalità e servizi pubblici in generale, ci saranno Regioni di serie A e di serie B. Ciò porterà gravi disuguaglianze, "migrazioni" e pendolarismi verso le città e le Regioni che offriranno il miglior servizio.
 4) Perché aumenterà i costi di gestione ed ingigantirà la burocrazia.
 La moltiplicazione degli uffici, il caos amministrativo legato ai conflitti di competenze tra stato e regioni, la diminuzione del controllo centralizzato su assunzioni, appalti ed opere pubbliche produrranno un´esplosione delle spese ed un aumento delle clientele.
E´ per questi motivi che il comitato "Salviamo la Costituzione", guidato dal Presidente Oscar Luigi Scalfaro, si oppone alla riforma costituzionale e condurrà la battaglia referendaria per bloccare questo mostro legislativo.


I 10 MOTIVI DELLA LEGA PER VOTARE SI


A furia di cercare, sul web e altrove, le ragioni di chi sostiene la riforma “federalista” della
Costituzione, esse sono venute da me, sotto forma di un commento anonimo a un mio
post di qualche tempo fa.
Sono quindi andato a vedere sul sito: http://digilander.libero.it/FEDERALISTACONVINTO
e ho trovato quello che lì è chiamato “IL DECALOGO DELLA RIFORMA
COSTITUZIONALE”.
Lo giudico di grande interesse, perché ci pone in grado di avviare un dibattito sugli
argomenti di coloro che hanno apprezzato il nuovo testo costituzionale.
In grassetto il testo originale del “decalogo”, in corsivo il nostro commento.

I - Viene ridotto il numero dei parlamentari: da 950 a 773, con significativo risparmio
per le finanze pubbliche.
Su questo possiamo anche trovarci d’accordo. Ma sinceramente, con oltre 1.550 miliardi di
debito pubblico sul groppone, mi pareva che le priorità fossero ben altre. Comunque non
mi pare motivo sufficiente per approvare la riforma nella sua interezza. Nessuno può
costringermi a mangiare tre chili di cacca, solo perché c’è una ciliegina candita nel
mezzo…

II - Saranno i cittadini, e non più i palazzi della politica, a scegliere maggioranza
parlamentare, coalizione di governo e primo Ministro: è il premierato.
Tanto per cominciare, la maggioranza parlamentare la scegliamo già da un sacco di
tempo, e anche la coalizione, da quando c’è il cosiddetto bipolarismo.
Di fatto, nelle ultime tre elezioni politiche ci siamo scelti pure il premier. La differenza vera
è che di fatto il premier, con la loro riforma, avrà tanto potere da non poter essere cacciato
via per cinque anni. Con tanti saluti alla Democrazia.

III - Non più due Camere identiche, l'una doppione dell'altra. Ora il Senato sarà
federale ed avrà una sua funzione specifica: rappresentare le esigenze delle
Regioni. La Camera si occuperà di quelle dello Stato.
IV Semplificato il procedimento legislativo. Non più lunghi e ripetuti passaggi di
testi fra le due Camere, ma ciascuna Camera approverà le leggi nelle materie di
propria competenza. Il risultato sarà la riduzione dei tempi e dei costi per le casse
pubbliche.
Bravissimi. Così scompare un fondamentale momento di controllo, per il quale se una
Camera approva una fesseria, si può sempre sperare che l’altra la corregga. Nossignori:
zàcchete, via il controllo. Mani libere, mani libere… non si sa mai di dover far passare a
tamburo battente una Cirielli, una Cirami, una Gasparri (alla Camera) o l’abolizione
dell’Italiano nelle scuole a favore dei dialetti (al Senato).
Sul fatto in sé che esista una Camera “statale” e un Senato federale, non ci sarebbe nulla
di strano, salvo che troppe sono le perplessità destate dal testo di legge specifico.In un
convegno del 2004, tanto per citare un esempio, Giuliano Amato ebbe a dire: “Ancora più
confusione si è finito col fare sul Senato. Io non sono tra quelli che lamentano il fatto che
un Senato espressivo, non della maggioranza politica, ma delle autonomie territoriali,
possa dire dei no, che sfuggono al rapporto di fiducia con cui li si evita alla Camera. Anche
questa infatti è divisione dei poteri e bene lo spiegò Madison, che vide nel federalismo la
dimensione verticale di tale principio. Le cose non vanno, però, se si arriva al punto di
attribuire al Senato un potere legislativo che, sulle materie di interesse regionale, lo abilita
addirittura a dire l’ultima parola, così come la dice la Camera sulle materie di esclusivo
interesse statale.
Qui, ancora, si è infilata la rotella del bicameralismo paritario nell’orologio di un sistema
che si vorrebbe federale. E nessun orologio del genere ha a questo mondo una tale
rotella.”

V - La legge dovrà stabilire limiti al cumulo delle indennità parlamentari con altre
entrate.
Non ho controllato se questo c’è nella riforma. Ma diamolo per buono. Vale per ciò che ho
scritto nella puntata precedente a proposito del primo punto. Scrivevo: “su questo
possiamo anche trovarci d’accordo. Ma sinceramente, con oltre 1.550 miliardi di debito
pubblico sul groppone, mi pareva che le priorità fossero ben altre. Comunque non mi pare
motivo sufficiente per approvare la riforma nella sua interezza. Nessuno può costringermi
a mangiare tre chili di cacca, solo perché c’è una ciliegina candita nel mezzo…”

VI - I regolamenti parlamentari dovranno tutelare i diritti delle opposizioni: ora
questo non è previsto.
Bella roba. Prima si fa una riforma nella quale i diritti dell’opposizione (=controlli e
contrappesi) semplicemente scompaiono, e poi se ne delega la cosa a quel che resta dei
regolamenti parlamentari. Siamo a posto.

VII - L’ordinamento evolve in senso federale, come sta avvenendo in molti Stati
moderni: viene riequilibrato il riparto delle competenze tra Stato e Regioni per
garantire migliori servizi ai cittadini, senza compromettere l’unità del Paese. Alle
Regioni vengono devolute particolari funzioni in materia di istruzione, sanità e
polizia locale. Tutte avranno le stesse opportunità, senza penalizzazioni per alcune
aree rispetto ad altre e senza la differenziazione tra le Regioni, prevista dalla riforma
del 2001. Si avrà quindi un federalismo equo, solidale ed equilibrato.
A me risulta che questi “molti Stati moderni” sono: la Gran Bretagna, che ha riconosciuto
le rivendicazioni autonomistiche degli Scozzesi; il Belgio, che parecchi anni fa si è dato un
assetto federale, distinguendo etnicamente tra Valloni e Fiamminghi, e basta. In entrambi i
casi, alla case di tutto c’erano complesse e indiscutibili questioni etniche. In Italia no.
Che il federalismo porti a garantire migliori servizi ai cittadini, è una petizione di principio.
Nessuno me lo ha ancora saputo dimostrare. Non è vero che alle Regioni vengono
devolute “particolari funzioni in materia di istruzione, sanità e polizia locale”, perché invece
queste materie diventano esclusive delle regioni. Basta passare il Po, o lo spartiacque
appenninico, per ritrovarsi con diritti e doveri molto diversi.

VIII - Tutte le leggi regionali dovranno rispettare il criterio dell'interesse nazionale,
non più previsto a seguito della riforma del 2001.
Nella riforma del 2001 non c’era alcun bisogno di richiamare l’interesse nazionale, che
infatti non c’era nemmeno nel testo originale della Costituzione. In compenso non si
capisce, ora, cosa sia il superiore interesse nazionale, anche perché chi dovrebbe
dirimere queste questioni sarebbe proprio il Senato Federale. E in assenza di definizione
del concetto, potrebbe benissimo decidere che è interesse dello Stato il federalismo più
sfrenato.

IX - Sulle modifiche alla Costituzione sarà sempre possibile chiamare i cittadini ad
esprimersi, mentre ora ciò non avviene se tali modifiche sono state approvate dalle
Camere con la maggioranza dei due terzi.
Bizzarra questa! A giudizio di costoro non basta il 66% (i due terzi) della maggioranza
parlamentare, di coloro che noi stessi abbiamo eletto. Di cosa hanno paura? Che un
domani ci possa essere una maggioranza del 70%? Non c’è forse già adesso il più
naturale meccanismo, per il quale se una maggioranza non è qualificata, si ricorre al
referendum. Dov’è il problema?

X - Aumentano le garanzie per i comuni e le province, gli enti più vicini ai cittadini:
potranno ricorrere alla Corte costituzionale in caso di lesione delle proprie
competenze.
Già oggi, il contenzioso tra Stato ed Enti locali è notevole, proprio perché questi ultimi
hanno gli organi cui ricorrere.
Un parere autorevole in merito, quello di Galli Della Loggia, dalle pagine del Corriere della
Sera, quando ancora non si era schierato (e Galli Della Loggia è inviso alla sinistra, sia
ben chiaro): “Viene estesa a dismisura, anche a campi come quello dell’istruzione e della
sicurezza pubblica, la capacità legiferatrice delle Regioni: lo Stato centrale mantiene sì,
formalmente, l’esercizio di un potere d’interdizione, ma in misura attenuata e così ambigua
che l’unico risultato prevedibile è una crescita esponenziale del contenzioso Stato-Regioni,
già oggi ben oltre il limite di guardia. Ciò che in conclusione la riforma costituzionale
realizza sarà un incrocio contraddittorio e micidiale di accentramento e decentramento,
all’insegna dell’istituzionalizzazione della paralisi e dell’apoteosi del ricatto.”

Il “decalogo” è completato da due brevi documenti, sui presunti vantaggi economici
del cosiddetto federalismo fiscale.

Da sempre le principali regioni ordinarie vedono tornare indietro solo una quota
ridotta di quanto i loro cittadini versano allo stato, così che non è infrequente il caso
di comuni al confine di regioni autonome che chiedono di entrare a farne parte.
La devolution avvia il processo di avvicinamento delle regioni ordinarie alle
autonome, pure se queste ultime acquisiscono la possibilità di interloquire con il
parlamento per la riscrittura dei loro statuti (art.116).
Guarda un po’ che scoperta. Da sempre le tasse servono a questo. Gli economisti la
chiamano “redistribuzione del reddito”. Si preleva di più ai ricchi, per dare più servizi ai
poveri. Che questo avvenga su base territoriale, non sposta che ammazzare questo
principio è semplicemente immorale. La lotta a quello che loro chiamano
“assistenzialismo” si deve fare su altre basi. Ad esempio combattendo le mafie, mafiucce e
conventicole varie.
Sul piano tecnico, comunque, la famosa devoluzione è un gran pasticcio. Cito al riguardo
Emanuele Lombardi (www.lacostituzione.it), segnalatomi da un amico:
“ E' opinione comune che la riforma del 2005, per realizzare la devolution/devoluzione,
abbia aggiunto le seguenti materie alla esclusiva competenza regionale:
* assistenza e organizzazione sanitaria;
* organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione, salva
l'autonomia delle istituzioni scolastiche;
* definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della
Regione;
* polizia amministrativa regionale e locale.
In realtà tali materie sono già di competenza regionale! Infatti è dal 2001 che l'art. 117non
le attribuisce alla competenza statale e aggiunge che "Spetta alle Regioni la potestà
legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione
dello Stato". Con la riforma Costituzionale del 2005 tali materie vengono solo
esplicitamente elencate tra quelle di competenza regionale (art. 117).”

Il passo successivo cui si sta lavorando, è il federalismo fiscale, che costituirà la
benzina della riforma.
Gli amministratori locali diverranno a tutti gli effetti responsabili della spesa.
Se non c’è legame fra entrate e uscite, non si può infatti valutare la qualità dei
servizi offerti.
Nessun problema per le regioni meno ricche: la costituzione (art. 119) prevede un
fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale per abitante.
Bella questa. I casi sono due. O il fondo perequativo è destinato a venire vanificato (se
prevaless la volontà vera di fare federalismo fiscale), oppure è un vero modo per
finanziare comunque le regioni più deboli: cioè per ridistribuire le tasse dei cittadini, con
tanti saluti al federalismo fiscale stesso. Ma andiamo avanti.

Quello che si vuole combattere è che, ad esempio, la regione Campania abbia 10
mila dipendenti contro i 3.800 della Lombardia ovvero – se li considera utili – la
Campania può anche tenerli, ma il suo governatore deve farsene carico e reperire i
fondi necessari.
Una volta stabilito che allo Stato và una parte limitata del prelievo fiscale, mentre il
resto rimane sul territorio, non potrà che innescarsi un meccanismo virtuoso in
grado finalmente di bloccare le spese folli che contraddistinguono il settore
pubblico (con la garanzia fra l’altro che, se tocca alle regioni trovare le risorse, la
lotta all’evasione sarà certamente più incisiva).
E’ dimostrato che più un ente locale può attingere fondi dello stato, più spende per
il suo apparato: in Lombardia e veneto, dove le province dipendono solo per il 40%
da trasferimenti statali, i dipendenti costano 25 euro per abitante; viceversa nelle
province della Basilicata, dove i trasferimenti rappresentano l’80% del bilancio, il
costo arriva a 61 euro.
E’ la cosìdetta “finanza derivata” che spinge gli organi periferici a spendere di più,
per ottenere almeno altrettanto il giro successivo.
Sul fatto che il federalismo rappresenti un toccasana per le finanze, pare che molti esperti
siano perplessi assai. Cito qualcuno di più autorevole del sottoscritto:
(ANSA) - ROMA, 28 nov - Un “insostenibile aumento dei costi, calcolato in 150mila miliardi
di vecchie lire in 3-4 anni”, e un “totale disfacimento” del Servizio sanitario nazionale.
Saranno queste le conseguenze della Devolution in Sanità. Ne è convinto il segretario
nazionale dell´Annao-Assomed, il maggiore dei sindacati medici, Serafino Zucchelli, che
lancia un chiaro invito: votare contro la Devolution in occasione del previsto referendum.
(…) “Gli economisti - ha detto - hanno infatti individuato in circa 150mila miliardi di vecchie
lire il costo in 3-4 anni della Devoluzione, considerando anche il passaggio del personale
dallo Stato centrale alle regioni. Un Paese con le nostre difficoltà economiche - si e´ quindi
chiesto il segretario Anaao - si può permettere una modifica costituzionale che innesca un
tale meccanismo di spesa? E´ una pazzia”.


LEOPOLDO ELIA* AVEVA AVUTO LA MIA STESSA IDEA…


…ma lui è molto più esperto di me. E’ stato Presidente della Corte Costituzionale.
Calderoli invece no, ha fatto una vacanza a Lorenzago di Cadore.
In grassetto, il decalogo di Calderoli. In corsivo, il controdecalogo di L.Elia (da
www.lacostituzione.it).
I - Viene ridotto il numero dei parlamentari: da 950 a 773, con signi-ficativo
risparmio per le finanze pubbliche.
I - La riduzione del numero dei parlamentari viene rinviata al 2016 per favorire gli attuali
capi e capetti. Nel lungo periodo c’è tempo anche per ridurre la riduzione; per ora c’è
l’effetto di annuncio demagogico.

II - Saranno i cittadini, e non più i palazzi della politica, a scegliere maggioranza
parlamentare, coalizione di governo e primo Ministro: è il premierato.
II - Il premierato non consiste nella investitura popolare di una maggioranza parlamentare,
di una coalizione di governo e Primo ministro. Ciò avviene già in Inghilterra, in Germania e
in Spagna
e anche in Italia: è sufficiente perciò una buona legge elettorale. Il premierato della riforma
si fonda sulla insostituibilità del Primo ministro durante tutta la legislatura e sui suoi enormi
poteri
(scioglimento della Camera dei deputati e questione di fiducia che, in caso di rifiuto da
parte della stessa Camera, provoca nuove elezioni).

III - Non più due Camere identiche, l'una doppione dell'altra. Ora il Senato sarà
federale ed avrà una sua funzione specifica: rappresentare le esigenze delle
Regioni. La Camera si occuperà di quelle dello Stato.
III -Il Senato federale non risolve il problema del bicameralismo per-ché non è in grado,
per la sua composizione, di rappresentare le esi-genze delle Regioni: d’altra parte i veri
rappresentanti delle Comunità regionali non hanno diritto di voto nelle deliberazioni del
Senato.

IV - Semplificato il procedimento legislativo. Non più lunghi e ripetuti passaggi di
testi fra le due Camere, ma ciascuna Came-ra approverà le leggi nelle materie di
propria competenza.
Il risultato sarà la riduzione dei tempi e dei costi per le casse pubbliche.
IV - Il procedimento legislativo è straordinariamente complicato perché la prevalenza della
Camera o del Senato si fonda sulla competenza a legiferare per singole materie dello
Stato e delle Regioni;siccome i confini di tali materie danno luogo a gravi dubbi
interpretativi (sui quali deve intervenire sempre più spesso la Corte
Costituzionale) è ovvia la ricaduta di tali incertezze sulle attribuzioni legislative di ciascuna
Camera, specie nelle leggi, come quella finanziaria, di particolare complessità. La
cancellazione del rapporto fiduciario tra Senato e governo sarebbe positiva solo se
accompagnata da una chiara ripartizione di poteri tra una Camera di
rappresentanza nazionale e una Camera veramente rappresentativa degli enti e delle
comunità regionali e locali.

V - La legge dovrà stabilire limiti al cumulo delle indennità parlamentari con altre
entrate.
V - La previsione di una legge che stabilisca limiti al cumulo delle indennità parlamentari
con altre entrate non risolve il problema del conflitto di interessi che dovrebbe essere
superato con regole giuste di incompatibilità e ineleggibilità anche in relazione a
concessioni o autorizzazioni statali di notevole entità economica.

VI - I regolamenti parlamentari dovranno tutelare i diritti delle opposizioni: ora
questo non è previsto.
VI - Il problema delle garanzie dell’opposizione non si risolve con un generico rinvio ai
regolamenti parlamentari, essendo necessarie puntuali revisioni costituzionali (ad
esempio, attribuzione alla Corte
costituzionale, in ultima istanza, dell’esame dei ricorsi elettorali per Camera e Senato).


VII - L’ordinamento evolve in senso federale, come sta avvenendo in molti Stati
moderni: viene riequilibrato il riparto delle competenze tra Stato e Regioni per
garantire migliori servizi ai cittadini, senza compromettere l’unità del Paese. Alle
Regioni vengono devolute particolari funzioni in materia di istruzione, sanità e
polizia locale.
Tutte avranno le stesse opportunità, senza penalizzazioni per alcune aree rispetto
ad altre e senza la differenziazione tra le Regioni, prevista dalla riforma del 2001. Si
avrà quindi un federalismo equo, solidale ed equilibrato.
VII - La devoluzione alle regioni di particolari funzioni in materia di istruzione, sanità e
sicurezza è pericolosa anche perché si accompagna ad una competenza esclusiva dello
Stato e delle Regioni
nelle stesse materie. Tale duplicità è illogica e può arrecare gravi danni all’esercizio (o
godimento) di diritti fondamentali (livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili
e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale). Si avrà quindi un federalismo iniquo,
conflittuale e squilibrato.

VIII -Tutte le leggi regionali dovranno rispettare il criterio dell'interesse nazionale,
non più previsto a seguito della riforma del 2001.
VIII - L’interesse nazionale è ampiamente salvaguardato dal riparto delle competenze tra
Stato e regioni e dalla giurisprudenza della Corte
costituzionale, che ha interpretato la riforma del Titolo V in senso pienamente rispettoso
dell’interesse della Nazione.

IX - Sulle modifiche alla Costituzione sarà sempre possibile chiamare i cittadini ad
esprimersi, mentre ora ciò non avviene se tali modifiche sono state approvate dalle
Camere con la maggioranza dei due terzi.
IX - L’abrogazione della norma che collega al raggiungimento dei due terzi in sede
parlamentare l’esclusione della richiesta di referendum sui testi di revisione costituzionale
(articolo 138 della Costituzione) va giudicata negativamente perché disincentiva quelle
larghe intese che a parole tutti auspicano per l’adozione di modifiche alla Costituzione.

X - Aumentano le garanzie per i comuni e le province, gli enti più vicini ai cittadini:
potranno ricorrere alla Corte costituzionale in caso di lesione delle proprie
competenze.
X - Il ricorso diretto alla Corte costituzionale dei Comuni, delle Province e delle Città metropolitane (articolo 46 della Riforma) per sollevare questioni di legittimità costituzionale su leggi o atti aventi forza di legge statali e regionali ritenuti lesivi di competenze costituzionalmente attribuite agli enti locali appare oggi un puro effetto annuncio perché la disciplina del ricorso è rinviata ad una legge costituzionale (condizioni, forme e termini di proponibilità della questione) di incerta adozione, nel se e nel quando.

*BIOGRAFIA di Leopoldo Elia

Nato a Fano il 4 novembre 1925, si è laureto il 25 novembre del 1947 in giurisprudenza,
nell'Università di Roma, col massimo dei voti e la lode discutendo - relatore Prof. Vincenzo
Gueli- una tesi su "L'avvento del governo parlamentare in Francia". Funzionario dell'Ufficio
Legislativo del Senato, è stato Segretario del Gruppo dei Parlamentari Italiani al Consiglio
d'Europa ed all'Assemblea Comune CECA, e ha successivamente svolto funzioni direttive
nel Segretariato dell'Assemblea, incaricato di formulare una costituzione per l'Europa.
Libero docente di diritto costituzionale, all'unanimità, nel 1959, ha poi vinto il consenso alla
cattedra nella stessa disciplina (primo temato) nel 1962. Ha insegnato, per incarico,
istituzioni di diritto pubblico nella facoltà di economia e commercio dell'Università di Urbino
(sede di Ancona) dal 1960 al 1963; e , come professore di ruolo, diritto costituzionale nella
facoltà di giurisprudenza dell'Università di Ferrara nell'anno accademico 1962-1963,
dell'Università di Torino dal 1963 al 1970 e dell'Università "La Sapienza" di Roma dal 1970
al 1997, tranne che nei periodi in cui è stato posto in aspettativa quale giudice
costituzionale e per mandato parlamentare. Vice Presidente del Consiglio Superiore
dell'Istituto Universitario Europeo di Firenze. Il 30 aprile del 1976 è stato eletto giudice
della Corte Costituzionale dal Parlamento in seduta comune. Il 21 settembre del
1981 è stato eletto Presidente della Corte Costituzionale e tale è rimasto fino alla
scadenza della carica di giudice costituzionale (7 maggio 1985). In questa
circostanza i colleghi gli hanno conferito il titolo di Presidente emerito della Corte
costituzionale. Nell'anno accademico 1985-86 ha ripreso l'insegnamento di diritto
costituzionale nella Facoltà di giurisprudenza dell'Università "La Sapienza". Direttore della
rivista "Giurisprudenza costituzionale" dal 1968 al 1976, ne ha riassunto la direzione nel
1986. E' stato altresì condirettore della sezione "Diritto pubblico" dell'Enciclopedia del
diritto. Il 14 giugno del 1987 è stato eletto senatore, per il Collegio Roma VIII, per la X
legislatura è stato Ministro per le riforme elettorali ed istituzionali nel Governo presieduto
da Carlo Azeglio Ciampi. Il 27 marzo 1994 è stato eletto deputato, nelle liste del Partito
Popolare italiano, nella circoscrizione di Lazio 2, per la XII legislatura. Il 21 aprile del
1996 è stato eletto senatore, per il collegio di Milano 5, per la XIII legislatura. In
quest'ultima legislatura è stato presidente del gruppo senatoriale del PPI.

COSA VERRÀ ABOLITO CON LA RIFORMA?


a)     scompare la collegialità del governo, il cui potere rimane completamente in mano al primo ministro. Infatti all’art. 33 prescrive che I ministri sono nominati e revocati dal Primo ministro. Insomma se un ministro non è d’accordo, il capo del governo lo può rimuovere, senza darne conto a nessuno. La prassi costituzionale dice oggi che un ministro va a casa solo se il parlamento lo sfiducia. Non solo. Non è più il Presidente della Repubblica a nominare i ministri. Si ricordi che fu per l’opposizione di Scalfaro che Previti non divenne ministro della giustizia (nientemeno!) nel 1994, come invece proposto da Berlusconi. Con questa norma, oggi lo diventerebbe.
b)     è il primo ministro a determinare la politica del governo a suo piacimento. Sempre all’art. 33 la riforma dice che  il Primo ministro determina (e non più “dirige”, come oggi) la politica generale del Governo e ne è responsabile. Garantisce l’unità di indirizzo politico e amministrativo, dirigendo, (nel testo della vecchia Costituzione quest’espressione, dirigendo, non c’è) promuovendo e coordinando l’attività dei ministri. Se prima un ministro non obbediva al capo del governo, c’erano solo due strade: crisi di governo o rimpasto previo passaggio parlamentare di sfiducia al ministro. Adesso il capo del governo, semplicemente lo può licenziare, e solo perché non gli ha obbedito.
c)     il governo non deve più chiedere la fiducia al parlamento: l’art. 32 della riforma recita che il Primo ministro illustra il programma di legislatura e la composizione del Governo alle Camere entro dieci giorni dalla nomina. La Camera dei deputati si esprime con un voto sul programma. (fino ad oggi invece,secondo l’art.94 della Costituzione, il Governo deve avere la fiducia delle due Camere. Ciascuna Camera accorda o revoca la fiducia mediante mozione motivata e votata per appello nominale. Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia.). Insomma il governo dipende dal primo ministro, e non più dal parlamento: scompare un fondamentale controllo e contrappeso istituzionale, l’autorità del parlamento sul governo.
d)     Il primo ministro può porre la questione di fiducia su qualsiasi legge (purché non parlamentare) con preminenza su tutto l’ordine del giorno (art.32) e senza chiedere il permesso a nessuno: Il Primo ministro può porre la questione di fiducia e chiedere che la Camera dei deputati si esprima, con priorità su ogni altra proposta, con voto conforme alle proposte del Governo, nei casi previsti dal suo regolamento. (attualmente, invece, secondo l’art.94 Cost., la mozione di sfiducia deve essere firmata da almeno un decimo dei componenti della Camera e non può essere messa in discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione.". In sostanza, può minacciare la crisi di governo e quindi nuove elezioni, senza nemmeno preavvertire il parlamento.
e)     Come se tutto questo non bastasse, il primo ministro può far sciogliere le camere al presidente della repubblica quando e come vuole. Secondo l’art.27, infatti, il Presidente della Repubblica decreta lo scioglimento della Camera dei deputati ed indìce le elezioni nei seguenti casi:
a) su richiesta del Primo ministro, che ne assume la esclusiva responsabilità; b) in caso di morte del Primo ministro o di impedimento permanente accertato secondo le modalità fissate dalla legge; 
c) in caso di dimissioni del Primo ministro;
d) nel caso di cui all’articolo 94, terzo comma 
(mozione di sfiducia).
In sostanza, ai primi segni di fermento, di minaccia di sfiducia da parte del parlamento, il primo ministro può mandare tutti a casa.
f)       Viene sì introdotta la cosiddetta “sfiducia costruttiva”, per la quale il parlamento può sfiduciare il primo ministro, ma si va a nuove elezioni, ammenocché la maggioranza parlamentare non indichi un’altra persona per quella carica. Attenzione però: non è tutto il parlamento che può dare il voto di sfiducia costruttiva: solo la maggioranza politica che era collegata al primo ministro al momento delle elezioni. Insomma, il primo ministro potrebbe essere sfiduciato solo dai suoi, e solo se i suoi indicano un altro primo ministro. Dell’opposizione, e del suo diritto di voto e di parola, chissenefrega (art.32):  Il Presidente della Repubblica non emana il decreto di scioglimento nei casi di cui alle lettere a), b) e c) del primo comma, qualora alla Camera dei deputati, entro i venti giorni successivi, venga presentata e approvata con votazione per appello nominale (così nessuno può “tradire il capo”) dai deputati appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti della Camera, una mozione nella quale si dichiari di voler continuare nell’attuazione del programma e si designi un nuovo Primo ministro. In tale caso, il Presidente della Repubblica nomina il nuovo Primo ministro designato".

La conseguenza di tutto ciò è che dal giorno in cui una maggioranza ha vinto le elezioni, fino a quelle nuove cinque anni dopo, mandare a casa il primo ministro è di fatto impossibile. Ci vuole il voto contrario di tutta la sua maggioranza (ridicolo), infatti basta un manipolo di suoi fedelissimi per vanificare il voto di sfiducia, anche se “costruttiva”.
In compenso il primo ministro può fare di tutto, nel frattempo: mandare a casa i ministri e nominarne di nuovi, e alla mala parata, addirittura far sciogliere il parlamento senza dare spiegazioni a nessuno. A tutto questo nemmeno i suoi alleati di maggioranza potrebbero opporsi. Potrebbe nominare una squadra di ministri con (poniamo) dieci ministri alleati, e sostituirli il giorno dopo…
E l’elenco degli esempi possibili, dei rischi, potrebbe continuare.
E noi elettori?
Sovrani per un giorno, poi sudditi, per cinque anni.
(rielaborazione di contributi forniti dal forumista che si firma "Fabio0485", che sentitamente ringraziamo).


C’È CHI DICE NO


Le forze dell'ordine dicono NO alla devolution della lega

Il Notiziario settimanale della Segreteria Nazionale del Sindacato Italiano Unitario Lavoratori Polizia n.36 del 5 dicembre 2005 riporta quanto deciso nel 5° Consiglio Generale Siulp, riunitosi a Fiuggi nei giorni 30 novembre, 1 e 2 dicembre 2005.
In particolare il CG auspica "che il Siulp possa partecipare attivamente alla campagna referendaria conseguente alla recente approvazione della riforma costituzionale, esprimendo come sempre valutazioni di merito anziché pregiudiziali posizioni di parte, rispetto ad alcuni aspetti della riforma che rischiano di ingenerare equivoci rispetto al mantenimento della centralità e dell’unicità della funzione dell’Autorità di pubblica sicurezza quale strumento per realizzare pienamente il coordinamento tra le varie Forze preposte alla tutela della sicurezza per i cittadini".

da 
referendum costituzionale.org

L’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia


Riceviamo dall’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, e volentieri pubblichiamo, il seguente

APPELLO PER IL "NO" AL REFERENDUM
LAVORO SINDACATO COSTITUZIONE DEVOLUTION
(Relazione all’attivo dei delegati CGIL Como dell’11 maggio 2006 (di Leo Ceglia)
Il 25 e 26 di giugno si voterà per il Referendum confermativo della controriforma costituzionale che ci ha lasciato in eredità il precedente governo Berlusconi. Si tratta di una pessima eredità, e noi voteremo e inviteremo a votare NO.
(…) vogliamo dire perché il sindacato, noi come CGIL, ma anche CISL e UIL, intende impegnarsi e molto per la vittoria del NO.
Ci sono almeno due ragioni.
La prima è che la Costituzione riguarda tutti, ma proprio tutti, nessuno escluso.
La Costituzione definisce i principi, i valori, le regole, per l’individuo e per la collettività, che rendono possibile la convivenza civile e democratica.
(…)
La seconda ragione è invece specifica e ci riguarda proprio in quanto sindacato.
La nostra Costituzione, infatti, un po’, l’abbiamo scritta anche noi.
Dicendo noi intendiamo il movimento operaio e sindacale italiano.
L’abbiamo scritta in un periodo specifico e particolare della storia del nostro Paese, tra il 1943 e il 1948.
(…)
Questo progetto, cosiddetto della devolution o del federalismo, può essere ricondotto a due momenti principali che ridisegnano integralmente l’architettura costituzionale della nostra forma stato e che si potrebbero riassumere in questo modo. Il primo momento è quello che trasferisce alla nuova figura del Primo Ministro tali e tanti poteri da cancellare il principio della divisione dei poteri.
Il secondo momento è quello che disegna la nuova architettura costituzionale del centro destra e che dà vita al cosiddetto "federalismo o devolution", per dirla nel linguaggio che piace alla Lega.
(…)
Il primo momento della riforma ha il suo centro, il suo filo conduttore, nella riforma del ruolo e della figura del Capo del Governo.
Egli verrebbe ad assumere su di sé un potere assoluto, e in particolare verrebbero ad essere a lui sottomessi sia il Parlamento che il Governo, vale a dire sia il potere legislativo sia quello esecutivo. Del terzo potere, quello giudiziario vedremo bene tra breve, ma anch’esso viene in qualche modo indirettamente sottomesso alla nuova figura del Primo Ministro.
Questo della sottomissione al Primo Ministro dei tre poteri dello stato è il cuore della riforma del centro destra. Ed essa dissolve, svuota, cancella, il principio cardine di tutte le Costituzioni democratiche, quello della separazione e dell’equilibrio dei poteri. Per questo la riforma del centro destra è antidemocratica.
(…)
A scandire la concentrazione dei poteri, ovvero la sottomissione dei tradizionali poteri dello stato al Primo Ministro, il disposto combinato di alcuni articoli della riforma, e in particolare gli articoli 88, 92, 94, 95.
Dal disposto combinato di questi articoli viene fuori che:
Il Primo Ministro è eletto dal popolo.
Il Primo Ministro nomina e revoca i Ministri.
Il Primo Ministro ottiene un voto (non di fiducia, ndr)sul programma di governo.
Il Primo Ministro determina e dirige l’attività del governo.
Il primo Ministro può richiedere in qualunque momento lo scioglimento della Camera e se ne assume la esclusiva responsabilità.
Il Primo Ministro se sfiduciato dalla Camera dei deputati decade assieme alla Camera che lo ha sfiduciato e si torna a votare.
Si torna ugualmente a votare in caso di morte o impedimento del Primo ministro.
Si torna a votare in caso di dimissioni volontarie del Primo Ministro.
Il Primo Ministro può decidere e chiedere la priorità sui provvedimenti legislativi in calendario alla Camera e chiedere su di essi il voto di fiducia. Se non la ottiene si torna a votare.
Se il primo ministro riceve la fiducia grazie al concorso determinante di deputati della opposizione si torna a votare (cosiddetta norma antiribaltone).
Il primo ministro può essere sostituito solo dopo essersi dimesso a seguito di sfiducia da parte della sua maggioranza e sostituito con un primo ministro indicato appositamente dalla medesima maggioranza, con la cosiddetta "sfiducia costruttiva".
Con l’eccezione dell’ultimo punto, praticamente impossibile a realizzarsi visti tutti gli altri, vita e morte del primo ministro e del Parlamento sono indissolubili, cade l’uno cade anche l’altro.
A completare l’opera della concentrazione dei poteri nelle mani del Primo Ministro le modifiche agli organi di garanzia.
Il Presidente della Repubblica diviene una specie di notaio nei confronti del potere esecutivo e legislativo, esegue e certifica le volontà del Primo Ministro e della sua Camera.
La Corte Costituzionale viene "politicizzata" alterandone la composizione, i giudici di nomina politica passano da cinque a sette, su quindici. Inoltre le vengono tolte le competenze a giudicare sui conflitti legislativi tra Stato e Regioni (il che rende il futuro Presidente una specie di notaio della volontà del Primo Ministro, ndr).
(…)
La violazione del principio della divisione dei poteri è palese.
(…)
Gli consegna tutto il potere perché egli potrebbe tenere sotto ricatto il potere legislativo, che se non fa quel che dice lui, tutti a casa e si torna a votare. Potrebbe tenere sotto ricatto il potere esecutivo perché nomina e revoca i Ministri "ad nutum" (con un cenno del capo). Potrebbe condizionare il potere giudiziario perché si altera la composizione della Corte Costituzionale portando a sette su quindici i giudici di nomina parlamentare.
(…)
Alcuni esempi tratti dalla cronaca di questi giorni ci aiutano a capire quale potrebbe essere la differenza per i cittadini, cioè per ciascuno di noi, tra la Costituzione attuale e quella che vi sarebbe se vincessero i SI.
Il primo es. è la condanna definitiva di Previti. Invito tutti a non gioire per questo ma solo a riflettere sulla differenza di quadro costituzionale di cui dirò.
Perché Previti non ce l’ha fatta a scampare al giudizio? Per due ragioni. La prima è perché Ciampi ha imposto, a pena di incostituzionalità,che il dimezzamento dei tempi di prescrizione non dovesse valere per quelli che erano già a giudizio. La seconda è che nei due rami del Parlamento l’indignazione per la Cirielli è stata davvero grande anche in alcuni settori del centro destra.
Cosa sarebbe successo se questo stesso governo avesse potuto operare con la nuova Costituzione da esso proposta? Che Previti non sarebbe mai arrivato al giudizio definitivo. Una legge ad hoc lo avrebbe salvato. Né la camera, né il Senato federale, né il Presidente della repubblica avrebbero potuto nulla contro un Primo ministro con i poteri che abbiamo visto.
(…)
Secondo esempio. Conflitto tra Castelli e Ciampi sul potere di grazia, quella per Bompressi (e indirettamente per Sofri). Ora la CC ha risolto il quiz a favore del potere esclusivo del Capo dello Stato. Con la nuova Costituzione, pensate che il Capo dello Stato avrebbe comunque sollevato il conflitto di poteri tra Lui e il Ministro di Giustizia? E se anche l’avesse fatto pensate sarebbe successo la stessa cosa con una CC con dentro sette deputati e senatori giudici su quindici?
Terzo esempio. Le discussioni sulla elezione del Capo dello Stato di questi giorni. Pensate avrebbero avuto senso nella cornice della nuova Costituzione? E quale senso avrebbero potuto avere gli appelli alla necessità di avere un Capo dello Stato garante della unità del paese e dei diritti delle opposizioni, super partes, se la Costituzione del centro destra quelle stesse funzioni di garanzia le avrebbe eliminate?
(…)
Si sente dire, nella polemica politica, da parte di esponenti del centro destra, che i poteri conferiti al primo ministro servono a rafforzare l’esecutivo e la stabilità di governo, e che in questo ci si allineerebbe ai sistemi democratici in vigore in altri paesi, Inghilterra, Stati Uniti, Francia, Germania.
Non è vero. I modelli di questi quattro paesi non sono affatto simili a quello proposto dal centro destra.In nessuno di questi paesi il rapporto tra il Capo dell’esecutivo e il Parlamento è neanche lontanamente simile a quello che è stato proposto da noi.
Nel sistema cosiddetto del premierato inglese in nessun caso il Premier può sciogliere il Parlamento ed egli può essere sostituito in qualunque momento anche se solo nell’ambito della sua maggioranza (è cronaca di questi giorni).
Nel sistema cosiddetto del Presidenzialismo all’americana il Presidente non può sciogliere le camere e neppure porre la fiducia sulle leggi che possono essere approvate anche se lui è contrario.
Nel sistema cosiddetto del semipresidenzialismo alla francese, che prevede come è noto un "esecutivo duale", cioè un esecutivo che è guidato sia dal Presidente della Repubblica sia dal Primo Ministro, (perciò è semipresidenziale), il Capo dello stato può sciogliere il Parlamento e quest’ultimo può sfiduciare il Primo Ministro.
Nel sistema cosiddetto del cancellierato tedesco infine il primo ministro può essere rimosso nel Bundestag da una maggioranza anche diversa da quella che ha vinto le elezioni.
(…)
Alcuni del centrodestra, per non andare troppo lontano, ci propinano anche l’argomento che in fondo si darebbe al primo ministro né più né meno che i poteri che ha qualunque sindaco da qualche anno a questa parte qui da noi.
In fondo anche il sindaco è eletto direttamente dal popolo e può sciogliere il Consiglio Comunale e promuovere nuove elezioni. Dove sarebbe lo scandalo?
C’è lo scandalo.
C’è perché il sindaco non fa le leggi, deve osservarle.
Il super primo ministro invece le leggi può farle. La differenza ci pare decisiva.
Passiamo rapidamente al secondo momento del progetto di riforma del centro destra, quello cosiddetto del "federalismo o devolution".
(…)
La riforma prevede una Camera dei deputati e un Senato federale della Repubblica.
L’iter legislativo muta radicalmente. Le leggi le approva la sola Camera e il Senato esprime solo un parere. Il Senato invece si occuperà delle leggi Regionali e di quelle nazionali che hanno un interesse espressamente regionale.
(…)
Ma a giustificare il termine federalismo o devolution è l’art. 117 della riforma, il quarto comma, quello che attribuisce alle Regioni la competenza esclusiva su materie come la sanità, la scuola, la polizia locale e ogni altra materia non espressamente riservata alla legislazione dello stato.
La competenza esclusiva delle regioni sui sistemi sanità scuola e polizia locale può dar luogo in potenza ad una moltiplicazione geografica di quei tre sistemi.
Venti regioni, venti differenti sistemi.
(…)
A questa nostra obiezione il centro destra risponde che loro si riferiscono alla organizzazione della sanità e della scuola e non al diritto in sé, che rimane garantito sul territorio nazionale nell’uno e nell’altro caso.
Che significa? Non è dato sapere.
(…)
Una riforma sulla organizzazione scolastica ce l’abbiamo già, è quella sull’autonomia scolastica. Vogliono forse cancellarla e centralizzare tutto sulle regioni? Ripetiamo, non è dato sapere.
In ogni caso, se prima quei diritti e la loro organizzazione facevano capo allo Stato, alla Repubblica dice la Costituzione, ora farebbero capo alle regioni, e non è esattamente la stessa cosa.
Inoltre, e anche questo non è indifferente come guasto che si produrrebbe, la competenza esclusiva su quelle materie implica che vengano raddoppiati gli apparati burocratico amministrativi ora interamente ministeriali, e moltiplicati per così dire, organizzativamente, su scala regionale con costi non indifferenti sulle casse pubbliche e, temo, rischi anche per i contratti nazionali di scuola e sanità.
(…)
In effetti, Alleanza Nazionale ha voluto e imposto il famoso articolo 127, secondo comma. E’ quello che introduce il concetto, non ben specificato, di "interesse nazionale della Repubblica". Questo articolo, tempo settanta giorni, consente al governo di turno tramite il Senato Federale, di cancellare ogni legge regionale giudicata in contrasto col famoso interesse nazionale.
(…)
E’ possibile che un governo sensibile al centralismo assecondi un orientamento, e un altro governo, sensibile al federalismo separatista ne assecondi un altro.
(…)
Per finire, due parole sulla polemica che più è stata in voga sino ad oggi, quella sul rapporto tra prima e seconda parte della Costituzione.
Gli estensori della riforma dicono che la prima parte non verrebbe toccata.
(…)
Ve lo immaginate cosa potrebbe fare un Primo Ministro a capo di una camera asservita e ricattabile, sul diritto di sciopero ad esempio, quando lo stesso primo ministro dovesse pensare sullo sciopero che esso è un rito trito e ritrito, inutile, che danneggia l’economia e le tasche degli stessi scioperanti che scioperano perchè turlupinati dai sindacati asserviti ai comunisti?
Ma si potrebbero fare esempi per tutti i 54 articoli della prima parte, molti dei quali definiti dal "nostro" di tipo sovietico.
No, la riforma costituzionale del centro destra riguarda eccome anche la prima parte di essa. Una metafora di Giorgio La Pira dice che la Costituzione è la Casa Comune di tutti. La prima parte contiene le fondamenta e i muri portanti, la seconda parte è il tetto. Se si smantella il tetto, una pioggia di leggi farà marcire anche tutto il resto.
Un’ultima considerazione. Brevissima.
Due legislazioni successive, a colpi di maggioranza, hanno modificato e provato a modificare la Costituzione. E’ sbagliato e grottesco tutto ciò.
Le Costituzioni scrivono le regole per tutti, di un gioco che deve valere per molte generazioni.
Questa legislazione ha anche questo compito, quello di piantarla con questo gioco demenziale, non esiste che ogni maggioranza di legislatura riscrive la Costituzione a suo piacimento!
Per tutte queste ragioni il 25 e 26 giugno votiamo e invitiamo a votare NO.
Il 2 giugno, sessantesimo della Festa della Repubblica si svolgerà a Como e forse in tutta Italia, il Referendum day, organizzato dai comitati "Salviamo la Costituzione", sentiamoci tutti mobilitati.


IL GRULLO PARLANTE

E poi dicono che la politica è lontana dai cittadini…
Come dice giustamente De Mauro, la Costituzione è la "struttura essenziale dello stato costituita dall’insieme delle istituzioni che determinano l’ordinamento supremo: c. monarchicac. repubblicana | l’insieme delle norme giuridiche che regolano le strutture fondamentali dello stato e i suoi rapporti con i cittadini."
Ne deriva necessariamente che la Costituzione dovrebbe essere scritta in un Italiano comprensibile a tutti i cittadini, lasciando alle leggi preposte ad attuarla i tecnicismi da legulei.
Ora, i nostri Costituenti, nel 1946, scrissero un piccolo capolavoro di comprensibilità.
Su questo argomento, abbiamo trovato un saggio post su un blog nostro amico ("Terra di Mezzo", visionionline.splinder.com), per il quale ringraziamo l’autrice, e che qui citiamo di seguito. Si veda ad esempio l’Art.70 della Costituzione:
"La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere.”
Punto.
Questo è integralmente l'attuale art. 70 della nostra Costituzione.
Le modifiche approvate dal centrodestra limitatamente allo stesso articolo sono le seguenti:
" Art 70:La Camera dei deputati esamina i disegni di legge concernenti le materie di cui all’articolo 117, secondo comma, fatto salvo quanto previsto dal terzo comma del presente articolo. Dopo l’approvazione da parte della Camera, a tali disegni di legge il Senato federale della Repubblica, entro trenta giorni, può proporre modifiche, sulle quali la Camera decide in via definitiva. I termini sono ridotti alla metà per i disegni di legge di conversione dei decreti-legge. Il Senato federale della Repubblica esamina i disegni di legge concernenti la determinazione dei princìpi fondamentali nelle materie di cui all’articolo 117, terzo comma, fatto salvo quanto previsto dal terzo comma del presente articolo. Dopo l’approvazione da parte del Senato, a tali disegni di legge la Camera dei deputati, entro trenta giorni, può proporre modifiche, sulle quali il Senato decide in via definitiva. I termini sono ridotti alla metà per i disegni di legge di conversione dei decreti-legge. La funzione legislativa dello Stato è esercitata collettivamente dalle due Camere per l’esame dei disegni di legge concernenti le materie di cui all’articolo 117, secondo comma, lettere m) e p), e 119, l’esercizio delle funzioni di cui all’articolo 120, secondo comma, il sistema di elezione della Camera dei deputati e per il Senato federale della Repubblica, nonché nei casi in cui la Costituzione rinvia espressamente alla legge dello Stato o alla legge della Repubblica, di cui agli articoli 117, commi quinto e nono, 118, commi secondo e quinto, 122, primo comma, 125, 132, secondo comma, e 133, secondo comma. Se un disegno di legge non è approvato dalle due Camere nel medesimo testo i Presidenti delle due Camere possono convocare, d’intesa tra di loro, una commissione, composta da trenta deputati e da trenta senatori, secondo il criterio di proporzionalità rispetto alla composizione delle due Camere, incaricata di proporre un testo unificato da sottoporre al voto finale delle due Assemblee. I Presidenti delle Camere stabiliscono i termini per l’elaborazione del testo e per le votazioni delle due Assemblee. Qualora il Governo ritenga che proprie modifiche a un disegno di legge, sottoposto all’esame del Senato federale della Repubblica ai sensi del secondo comma, siano essenziali per l’attuazione del suo programma approvato dalla Camera dei deputati, ovvero per la tutela delle finalità di cui all’articolo 120, secondo comma, il Presidente della Repubblica, verificati i presupposti costituzionali, può autorizzare il Primo ministro ad esporne le motivazioni al Senato, che decide entro trenta giorni. Se tali modifiche non sono accolte dal Senato, il disegno di legge è trasmesso alla Camera che decide in via definitiva a maggioranza assoluta dei suoi componenti sulle modifiche proposte.L’autorizzazione da parte del Presidente della Repubblica di cui al quarto comma può avere ad oggetto esclusivamente le modifiche proposte dal Governo ed approvate dalla Camera dei deputati ai sensi del secondo periodo del secondo comma. I Presidenti del Senato federale della Repubblica e della Camera dei deputati, d’intesa tra di loro, decidono le eventuali questioni di competenza tra le due Camere, sollevate secondo le norme dei rispettivi regolamenti, in ordine all’esercizio della funzione legislativa. I Presidenti possono deferire la decisione ad un comitato paritetico, composto da quattro deputati e da quattro senatori, designati dai rispettivi Presidenti. La decisione dei Presidenti o del comitato non è sindacabile in alcuna sede. I Presidenti delle Camere, d’intesa tra di loro, su proposta del comitato, stabiliscono sulla base di norme previste dai rispettivi regolamenti i criteri generali secondo i quali un disegno di legge non può contenere disposizioni relative a materie per cui si dovrebbero applicare procedimenti diversi"."
E poi i leghisti dicono che i regolamenti dell’UE sono burocratici, lunghi, inutili, farraginosi, incomprensibili…
Ma cosa si beve dopo cena, a Lorenzago di Cadore? Allucinante.










Il Grullo parlante di oggi è assegnato di diritto a Roberto Calderoli

L'ineffabile Calderoli, il "saggio" di Lorenzago di Cadore, l'artefice di quel pastrocchio federalfascista denominato pomposamente "devoluzione", ha fatto il decalogo, che già ho avuto il piacere di commentare (in buona compagnia, niente meno con un ex presidente della Corte Costituzionale).
Ma una notizia di oggi mi spinge irrefrenabile all'ebbrezza del post.
Eh sì: perché l'ineffabile (o chi per lui dalle parti della Lega) ha scritto in calce al suo decalogo che:
"Il passo successivo cui si sta lavorando, è il federalismo fiscale, che costituirà la benzina della riforma.
Gli amministratori locali diverranno a tutti gli effetti responsabili della spesa.
(...)

Una volta stabilito che allo Stato và una parte limitata del prelievo fiscale,
mentre il resto rimane sul territorio, non potrà che innescarsi un  meccanismo virtuoso in grado finalmente di bloccare le spese folli che contraddistinguono il settore pubblico (con la garanzia fra l’altro che, se tocca alle regioni trovare le risorse, la lotta all’evasione sarà certamente più incisiva)."

Hai capito! Basta spostare i soldi in periferia, e il gioco è fatto... Mica li vorrai lasciare
a Roma ladrona, no?
Poi uno apre il giornale, e scopre che il deficit accumulato da sei regioni (Liguria, Lazio, Sicilia, Abruzzo, Molise, Campania) ammonta, per la sola Sanità, a 4 miliardi di Euro l'anno.
Sbaglio, o la Sanità è già affidata alle Regioni?
Ma il federalismo non doveva risolvere i problemi economico-finanziari?
Ma non era lo statalismo komunista che sfasciava i conti dello Stato?
Ma non erano tutti nella macchina statale i burocrati parassiti?
Ma gli amministratori locali non erano così più bravi?


MA IL FEDERALISMO NON DOVREBBE RIDURRE GLI SPRECHI?

 Questa la propaganda leghista sul federalismo fiscale…
"Gli amministratori locali diverranno a tutti gli effetti responsabili della spesa. (…) Una volta stabilito che allo Stato va una parte limitata del prelievo fiscale, mentre il resto rimane sul territorio, non potrà che innescarsi un meccanismo virtuoso in grado finalmente di bloccare le spese folli che contraddistinguono il settore pubblico"
… e questo è il parere degli economisti.
Dal "Sole 24 Ore" dello scorso 25 febbraio, che commenta uno studio dell'ISAE sui costi del federalismo: 
"Federalismo, 69 miliardi per la nuova spesa locale" 

"Con la devolution, le entrate tributarie locali (…) passerebbero dall'attuale 23% al 62% del totale delle entrate tributarie della Pubblica Amministrazione (allo Stato centrale resterebbe quindi solo il 38% del gettito tributario). 
Inoltre le entrate tributarie locali che attualmente rappresentano il 16 % del gettito totale fiscale e parafiscale passerebbero a una quota del 43%.Le Regioni si troverebbero con un indice di autofinanziamento del 99% (contro l'attuale 59 %). Infine, la pressione fiscale locale aumenterebbe dall'attuale 7% ad oltre il 18%)"  Fino a qui, niente di strano. Andatelo poi a spiegare ai cittadini di Ponte di Legno o di Lorenzago, che le amministrazioni locali aumentano le loro tasse, mentre "Roma ladrona" le diminuisce. Ma andiamo avanti. "Dunque, le Regioni vengono ad ereditare proprio quella parte di spesa pubblica che già lo stato centrale fatica moltissimo a gestire. Il sospetto che i costi aggiuntivi della transizione possano essere ingenti, a questo punto è corposo. Anche perché, spiegano gli economisti nel rapporto, esistono numerosi fattori di rischio. Uno è il rischio di frammentazione delle normative che implica dei costi per il sistema economico complessivo. Ha senso prevedere ad esempio 20 normative di incentivazione regionale all'industria o per il commercio con l'estero? E' inoltre ragionevole ipotizzare, che, essendo le retribuzioni "di fatto" dei dipendenti degli enti territoriali più elevate di quelle dei dipendenti statali, un trasferimento massiccio in strutture decentrate possa favorire una crescita complessiva delle retribuzioni. Così come certamente non aiutano, sul fronte dei costi aggiuntivi, le più che probabili duplicazioni amministrative".  Ecco spiegato perché si calcola un costo aggiuntivo, con il federalismo fiscale, di almeno 69 miliardi di Euro (centotrentatremila miliardi di vecchie lire!) per le nostre tasche. Votiamo "NO" al referendum del 25-26 giugno anche per questi motivi. (Ringraziamo il forumista "JFK" per la preziosa segnalazione)

* L'Istituto di Studi e Analisi Economica (ISAE) è stato istituito con D.P.R. n. 374/98, nell'ambito del processo di riorganizzazione e unificazione dei Ministeri del Tesoro e del Bilancio e della Programmazione Economica, operate dalla Legge n. 94/1997 ed opera dal gennaio 1999. L'ISAE effettua analisi e ricerche che abbiano "il fine precipuo dell'utilità per le decisioni di politica economica


LA PAROLA AGLI ESPERTI



Cosa dicono gli esperti:

“è una dittatura del premier nel senso che il premier, che è una figura che appartiene al concetto liberal-democratico, è caratterizzato da un eccesso di potere. Nessuno lo frena. Lo Stato non conta più niente: perché la Corte Costituzionale verrà impacchettata; perché all’authority, come abbiamo visto, il premier nomina addirittura i suoi a controllare se stesso e così via, e potrei fare un lungo elenco. Così diventa un capo del governo illimitato, incontrollato, incontrollabile, assoluto, cioè privo di legami, e in questo senso ha poteri di tipo dittatoriale. Non dico che è un dittatore, ma che ha poteri di quel tipo.” (Giovanni Sartori)

“delinea la forma di governo unica al mondo, basata sulla dittatura di un uomo solo. Il Parlamento è alla mercé del primo ministro. (…) Il popolo è sovrano per un giorno e poi suddito per cinque anni. E così enormi poteri vengono concentrati nelle mani di un uomo solo: il primo ministro eletto direttamente dai cittadini. Avrà i poteri del presidente degli Stati Uniti, più quelli del primo ministro britannico, più quelli del Cancelliere tedesco. Ma non incontrerà nessuno dei limiti e dei contrappesi che rendono democratici.”
(Franco Bassanini)

“con la scusa dell’antiribaltone, il primo ministro può utilizzare tutti gli strumenti più qualcun altro che furono escogitati allora… La regola diventa: simul stabunt, simul cadent… sono stati eletti insieme, devono cadere insieme. Un patto di ferro. Non può cadere solo il premier, che una volta eletto è intoccabile per cinque anni. Tutto questo sarebbe ed è assolutamente inconcepibile in un regime democratico.”
(Leopoldo Elia)



PERCHÉ DICO NO A QUESTA RIFORMA DELLA COSTITUZIONE

Giorgio Napolitano, discorso al Senato, 10-05-2006
da libertaegiustizia.it
Lei non si stupirà, signor Presidente, se pur essendo stato da così breve tempo chiamato a far parte di quest'Assemblea, prendo oggi la parola. Ho in effetti ritenuto di non potermi sottrarre alla responsabilità di un giudizio motivato su una legge di natura specialissima, qual è quella ora sottoposta al nostro ultimo esame, di revisione complessiva e radicale dell'ordinamento della Repubblica.
Tanto più che, se non sono stato finora partecipe del contrastato iter di questa legge, ho, in periodi precedenti, svolto un ruolo attivo nel lungo processo di elaborazione e discussione di idee e di proposte di riforma costituzionale che si è svolto nei due rami del Parlamento almeno a partire dalla fine degli anni Settanta.
Perché vedete, e vorrei sottolinearlo, sarebbe del tutto infondato il sostenere o il lasciar intendere che nel passato il Parlamento sia rimasto chiuso in un atteggiamento di pura conservazione, di statica e retorica difesa della Costituzione del 1948.
Ben prima che negli anni 1993-1994 intervenisse una vera e propria cesura, una rottura di continuità nel nostro sistema politico, ben prima di allora, tra i partiti storici della Repubblica nata nel 1946, era venuta maturando l'esigenza di un ripensamento e di un adeguamento del quadro istituzionale. Nel 1982, un primo "inventario" di proposte di riforma venne redatto dalle Commissioni affari costituzionali della Camera e del Senato. Nel 1983 fu istituita, come è noto,  un'ampia e rappresentativa Commissione bicamerale di studio sulle riforme istituzionali, presieduta dall'onorevole Bozzi, che presentò nel 1985 un quadro assai ricco di considerazioni e indicazioni concrete, rimaste purtroppo senza seguito.
Vennero poi anni di stagnazione del confronto e dell'iniziativa sui temi di una possibile revisione della Costituzione, anche se non mancarono leggi ordinarie di notevole significato istituzionale, come, nel 1988, quella sull'ordinamento della Presidenza del Consiglio o come, nel 1990, quella sull'ordinamento delle autonomie locali.
Si giunse così, all'inizio della XI Legislatura, in una condizione di grave ritardo dinanzi a esigenze oggettive e a sollecitazioni dell'opinione pubblica ormai non più dilazionabili e quindi si impose una scelta che per primo il presidente della Repubblica appena eletto, Oscar Luigi Scalfaro, invitò "fermamente" il Parlamento a compiere: la nomina, che col compianto presidente Spadolini subito promuovemmo, di una Commissione bicamerale non più solo di studio, ma con poteri di iniziativa legislativa, con funzioni redigenti e referenti, che fosse in grado di sottoporre a entrambe le Assemblee un progetto compiuto di riforma della Parte II della Costituzione.
La Commissione, presieduta prima da Ciriaco De Mita e poi da Nilde Iotti, riuscì a presentare un organico, non esaustivo ma, condiviso progetto, nel gennaio 1994, (relatore per la forma di Stato Silvano Labriola e per la forma di governo Franco Bassanini). Il progetto cadde con lo scioglimento, di lì a poco, di Camera e Senato.
Ricordo tutto ciò anche perché il senatore Francesco D'Onofrio, nella sua relazione del gennaio 2004, volle richiamare i lavori sia della Commissione De Mita-Iotti sia della successiva Commissione D'Alema, sostenendo che la proposta di riforma presentata dell'attuale Governo dovesse intendersi semplicemente come conclusione di un percorso. Tale affermazione sarebbe da apprezzare per la sua modestia se non contrastasse con la realtà dell'effettiva ispirazione della proposta, ancora oggi al nostro esame, ispirazione tutt'affatto diversa da quelle che sorreggevano i progetti precedenti e segnatamente quello del gennaio 1994.
Qualche giorno fa ho avuto modo, in occasione della cerimonia di omaggio dedicata all'onorevole Labriola appena scomparso, di mettere in evidenza come la sua relazione di oltre 11 anni fosse audacemente innovativa e nello stesso tempo ispirata a grande equilibrio e responsabilità istituzionale.
Ebbene, con quell'impostazione e con le modifiche che vennero di conseguenza prospettate, risultano coerenti in realtà le proposte di riforma non della maggioranza, ma della minoranza, comprese quelle che escludono la formulazione, nell'articolo 117 della Costituzione, di un elenco di potestà legislative sia concorrenti sia esclusive delle Regioni, accanto alla specificazione delle materie affidate alla competenza dello Stato e postulano possibilità di iniziativa dello Stato federale nell'interesse nazionale, anziché un richiamo sanzionatorio a quell'interesse, ove appaia violato.
Per questo ed altri aspetti - come si sa - l'attuale schieramento di minoranza ha già proposto, con il disegno di legge presentato dai senatori Villone e Bassanini nel settembre 2003, modifiche rilevanti della stessa riforma del Titolo V che esso aveva, da posizioni di maggioranza, varato in modo non sufficientemente meditato.
In effetti, se si legge ancora oggi e si considera obiettivamente il testo presentato, sempre nel gennaio 2004, dai relatori di minoranza, si può constatare come ad una critica puntuale e severa del progetto governativo si accompagnasse un insieme di proposte tale da configurare un vero e proprio progetto alternativo di riforma. Il Governo e la maggioranza che lo sorregge - a mio avviso - avrebbero dovuto apprezzare il fatto che lo schieramento di centro-sinistra non ha sostenuto che tutte le esigenze di revisione costituzionale, affiorate nel lungo processo da me richiamato e culminato nella Commissione bicamerale D'Alema, fossero da ritenersi ormai superate.
In particolare, pur essendosi significativamente consolidate - attraverso il passaggio al sistema elettorale maggioritario e la prassi di una competizione politica bipolare - la posizione del Governo in Parlamento, la governabilità del Paese e la stabilità dell'azione di Governo, l'attuale opposizione ha continuato e continua a presentare proposte volte a sancire in sede costituzionale tale evoluzione e a rafforzare i poteri del Primo Ministro rispetto alle formulazioni della Carta del 1948.
E' dunque l'attuale opposizione che si è preoccupata e si preoccupa di concludere, sulla base di un'ulteriore e coerente maturazione, il percorso che venne bloccato nel 1998, non occorre qui ricordare come e per responsabilità di chi. Sono parte della conclusione di quel percorso le proposte della relazione di minoranza relative alla composizione e alle attribuzioni del nuovo Senato della Repubblica, ma anche tutte quelle riguardanti un sostanziale adeguamento del sistema delle garanzie e dello statuto dell'opposizione all'avvento e all'abuso di un meccanismo maggioritario.
Quel che anch'io giudico inaccettabile è, invece, il voler dilatare in modo abnorme i poteri del Primo Ministro, secondo uno schema che non trova l'eguale in altri modelli costituzionali europei e, più in generale, lo sfuggire ad ogni vincolo di pesi e contrappesi, di equilibri istituzionali, di limiti e di regole da condividere.

Quel che anch'io giudico inaccettabile è una soluzione priva di ogni razionalità del problema del Senato, con imprevedibili conseguenze sulla linearità ed efficacia del procedimento legislativo; una alterazione della fisionomia unitaria della Corte costituzionale, o, ancor più, un indebolimento dell'istituzione suprema di garanzia, la Presidenza della Repubblica, di cui tutti avremmo dovuto apprezzare l'inestimabile valore in questi anni di più duro scontro politico.
E allora, signor Presidente, onorevoli colleghi, il contrasto che ha preso corpo in Parlamento da due anni a questa parte e che si proporrà agli elettori chiamati a pronunciarsi prossimamente nel referendum confermativo non è tra passato e futuro, tra conservazione e innovazione, come si vorrebbe far credere, ma tra due antitetiche versioni della riforma dell'ordinamento della Repubblica: la prima, dominata da una logica di estrema personalizzazione della politica e del potere e da un deteriore compromesso tra calcoli di parte, a prezzo di una disarticolazione del tessuto istituzionale; la seconda, rispondente ad un'idea di coerente ed efficace riassetto dei poteri e degli equilibri istituzionali nel rispetto di fondamentali principi e valori democratici.
La rottura che c'è stata rispetto al metodo della paziente ricerca di una larga intesa, il ricorso alla forza dei numeri della sola maggioranza per l'approvazione di una riforma non più parziale, come nel 2001, ma globale della Parte II della Costituzione, fanno oggi apparire problematica e ardua, in prospettiva, la ripresa di un cammino costruttivo sul terreno costituzionale; un cammino che bisognerà pur riprendere, nelle forme che risulteranno possibili e più efficaci, una volta che si sia con il referendum sgombrato il campo dalla legge che ha provocato un così radicale conflitto.
Mi asterrò dal rivolgere alle forze di Governo poco realistici appelli alla riflessione, ma non posso fare a meno di esprimere la mia convinzione che la strada indicata qui dall'attuale minoranza corrisponde all'interesse di entrambi gli schieramenti politici, nel loro prevedibile alternarsi in posizioni di maggioranza e di opposizione. Essa corrisponde all'interesse di una moderna e responsabile evoluzione del nostro sistema democratico e anche, non da ultimo, alla ricostruzione di un clima, che è purtroppo venuto meno, di più misurato, impegnato e fecondo confronto in Parlamento: un clima che è condizione per l'esercizio, con autorevolezza, del ruolo insostituibile di questa nostra istituzione.
(Applausi dai Gruppi DS-U, Mar-DL-U, Misto-RC, Misto-Com e Misto-Pop-Udeur. Molte congratulazioni).
Senato della Repubblica, XIV legislatura, 897a seduta pubblica
Martedì 15 novembre 2005
Discussione del disegno di legge costituzionale: Modifiche alla Parte II della Costituzione (Approvato in prima deliberazione dal Senato; modificato in prima deliberazione dalla Camera dei deputati; nuovamente approvato, in prima deliberazione, dal Senato e approvato, in seconda deliberazione, dalla Camera dei deputati)

LA CRISI COSTITUZIONALE ITALIANA NELL’ATTUALE FASE DELLA “LOTTA PER LA COSTITUZIONE”

di Mario Dogliani e Ilenia Massa Pinto*

1.- Una periodizzazione della storia costituzionale italiana.

La crisi costituzionale in atto può essere meglio compresa alla luce delle precedenti fasi della storia costituzionale italiana: l’armistizio fragile (1943 – 1955), l’armistizio consolidato (1956 – 1968), il disgelo (1969 – 1978), la nuova glaciazione (1979 – 1993), il passaggio dalla “lotta sulla Costituzione” alla “lotta per la Costituzione” (tuttora in corso).
Questa periodizzazione è, ovviamente, molto discutibile, ma non vuole avere altro scopo che quello di evidenziare le diverse modalità con cui la Costituzione è stata percepita.
L’armistizio fragile definisce gli anni in cui - malgrado l’idem sentire che rese possibile la concordia costituente – la situazione geopolitica era aperta ad evoluzioni armate, interne ed esterne, della guerra fredda. In quegli anni la Costituzione venne attuata solo nelle parti che disciplinano lo “scheletro” della democrazia: le regole di coesistenza che rendevano possibile il non ricorso alla guerra civile.
L’armistizio consolidato fa riferimento agli anni successivi, in cui le prime attuazioni della Costituzione testimoniano che non era più in gioco la sua revoca. Il completamento parziale e selettivo del quadro istituzionale è sintomo del fatto che il consolidamento della Costituzione avvenne attraverso il suo congelamento nella condizione, appunto, di “cornice” (non di “disegno”) della politica. La parte “non minima” della Costituzione (il suo progetto riformatore) era riconosciuta solo come orizzonte di valori, non di programmi; come insieme di fini, non di mezzi. Il "gelo costituzionale", dunque, fu gelo sì, ma non fu proposito di rovesciamento, se non da frange minoritarie che furono dette, appunto, "eversive".
Il disgelo comprende gli anni in cui quell’idem sentire che aveva ispirato la scrittura della Costituzione (nei suoi protagonisti più riflessivi, al di là del crudo armistizio strategico) riacquista forza, e si fa consenso intorno ad un disegno di sviluppo sociale e (con meno chiarezza) di sviluppo politico. L’attuazione della Costituzione si pone come problema attinente alla realizzazione di un insieme di politiche e al progressivo abbandono della conventio ad excludendum. I partiti dell’arco costituzionale vedono nella Costituzione non più solo un insieme di regole armistiziali che disciplinano lo svolgimento della lotta politica, ma un modello complessivo di società (sono gli anni che vanno dalla riforma pensionistica del 1969, dallo statuto dei lavoratori e dall’attuazione delle regioni del 1970, al nuovo diritto di famiglia del 1975 e alla realizzazione del servizio sanitario nazionale del 1978). Anche in questo periodo l’eversione fu forte e feroce, ma il sistema politico, nella sua parte assolutamente maggioritaria, continuò – almeno pubblicamente - a tenere rigorosamente separato il problema della difesa dell’ordine costituzionale da quello di un suo cambiamento.
Ma i giudizi sul decennio erano divaricati, e il tarlo dell’”eccesso di democrazia”, o dell’eccesso di complessità, stava lavorando. La nuova glaciazione si è diffusa quando nel sistema politico italiano hanno trovato radici le suggestioni della rivoluzione passiva reaganiana e thatcheriana e le parallele suggestioni maggioritarie e leaderistiche. Le une in polemica con il modello di welfare tardivamente realizzato nel decennio precedente; e le altre (la grande riforma craxiana[1]) in polemica con l’evoluzione parlamentare del medesimo decennio, che avrebbe inevitabilmente portato in modo stabile il PCI nell’area delle forze di governo. Questa seconda glaciazione – che può essere collocata tra il ristabilimento della conventio ad excludendum, con il cosiddetto “preambolo”[2], e il referendum sul sistema proporzionale - ha fatto regredire il riconoscimento della Costituzione del 1948 oltre i limiti ai quali si era fermata la prima. Non solo non si è più visto nella Costituzione un programma politico da attuare in funzione dello stabilimento di un modello di società attualmente condiviso, ma non si è più neppure accettato che la Costituzione rappresentasse un quadro soddisfacente di fini proiettati sul futuro; e soprattutto si sono messe in discussione le regole sulle forme della lotta politica e sulla forma della democrazia (da democrazia organizzata, fondata sulla mediazione dei partiti, a democrazia individualistica, fondata sul rapporto immediato tra singoli e rappresentanti). Con quest’ultimo passaggio - giunto a piena maturazione col referendum predetto, ma perfettamente presente già nella strategia della “grande riforma” - si è sancito che la Costituzione del ’48 aveva cessato di rappresentare lo strumento essenziale di un equilibrio strategico vitale. Con questa ammissione si può dire che la costituzione materiale formatasi nel periodo del CLN[3] sia entrata, propriamente, in crisi. E’ questo elemento culturale che rileva sopra ogni altro, e non, di per sé, il terremoto che investì i partiti tradizionali a seguito delle inchieste giudiziarie, nel corso della breve XI legislatura (1992 – 1994), e la falcidia elettorale che, quasi tutti, subirono.
I confini tra questa fase e quella successiva, tuttora in corso, sono labili. Infatti, se la “lotta sulla Costituzione” è il fisiologico, per quanto aspro, conflitto che ha per posta il prevalere di una o di un’altra sua interpretazione, e se la “lotta per la Costituzione” è invece il patologico conflitto tra chi ne difende l’attuale validità e chi ne afferma invece interpretazioni svalutative, al limite della desuetudine, invocando discontinuità sostanziali (e dunque l’instaurazione, di fatto o di diritto, di un nuovo ordinamento), è evidente che profili di “lotta per la Costituzione” erano già presenti negli anni Ottanta. Ciò che è cambiato – a partire dalla XII legislatura – è che per due volte il potere di revisione previsto dall’art. 138 della Costituzione è stato utilizzato al di là dei suoi limiti, non come potere di emendamento, ma come potere che ha toccato i limiti della discontinuità costituente. Una prima volta con la legge costituzionale 24 gennaio 1997 n. 1, e, poi, con il disegno di legge costituzionale recante «Modifiche alla Parte II della Costituzione», approvato sinora dall’attuale maggioranza in sede di seconda deliberazione. L’uso ultra vires del potere di revisione è il sintomo più chiaro di un intervenuto squilibrio nel rapporto di forza, e cioè del fatto che i fautori di una permanente validità della Costituzione del 1947, e della permanente normatività della cultura politica che l’ha ispirata, sono divenuti sempre più deboli. Sono presenti, ma assolutamente minoritari, solo tra le forze politiche organizzate dell’attuale opposizione, e sopravvivono essenzialmente in “movimenti” spontanei e in settori della cultura giuridica e degli organi giurisdizionali. In questo senso si può dire che nell’attuale legislatura e in quella precedente la lotta sulla Costituzione sia stata sostituita dalla lotta per la Costituzione (che assume sempre più i connotati di una “resistenza”: come tale sparsa e minoritaria).

2.- Delimitazione dell’indagine: i sintomi della crisi nell’ultima fase.


La definitiva approvazione del disegno di revisione in itinere non è tuttavia scontata - dipendendo dall’esito del referendum ex art. 138 Cost. - e la situazione sta evolvendo. Non possiamo dunque dire se, e in che direzione, la “quarta fase” della storia costituzionale italiana stia per concludersi (e se, e come, con essa si concluderà la lunga sequenza del revisionismo costituzionale iniziato alla fine degli anni ’70). Su questo tema torneremo in chiusura di questo scritto che si limiterà – lasciando in sospeso il giudizio sull’esito finale della lotta in corso, e senza volerne ricostruire gli antefatti più lontani – ad esporre i sintomi principali della crisi costituzionale italiana quale si è venuta delineando in quest’ultima fase, e cioè a partire dall’introduzione del sistema elettorale maggioritario, con l’avvio della XII legislatura.
“Crisi costituzionale” non è espressione che possa essere banalizzata, e riferita a qualunque mancata attuazione, o cambiamento o deviazione da un alveo di precedenti. Significa, propriamente, crisi della effettività della Costituzione, e cioè crisi del suo riconoscimento diffuso. Non verranno dunque ripercorse tutte le vicende costituzionalmente significative, ma solo quelle che, appunto, rappresentano, nella loro concatenazione, il sintomo di un rifiuto della sua normatività.
Come si è prima accennato, la fine di tutti i partiti che nel ’47 avevano guidato i lavori dell’Assemblea costituente non è, di per sé, un fatto risolutivo ai fini del giudizio sulla continuità costituzionale, a meno di non seguire in modo ultra-rigido la teoria della costituzione materiale, facendone una teoria legata alle precise identità storiche delle forze costituenti.
Sintomo di crisi costituzionale sono invece, da un lato, i cambiamenti intervenuti nella concezione della democrazia, prima ancora che della forma di governo, e cioè il modo con cui la rappresentanza si è riorganizzata e ha tentato di ricollocarsi nei confronti degli altri poteri dello Stato; e, dall’altro, i cambiamenti intervenuti nella concezione del legame sociale e dunque dei fini dello Stato. L’una e l’altra trasformazione hanno condotto ad evocare (retoricamente) il potere costituente e ad utilizzare (effettivamente) il potere di revisione non come potere di emendamento costruttivo e rispettoso, ma come potere di modifica organica e discontinua.

3.- La trasformazione della rappresentanza: il conflitto di interessi.


Sotto il primo profilo, rilievo assolutamente centrale ha il fatto che la riorganizzazione della rappresentanza sia avvenuta attraverso la formazione di un polo di destra strutturalmente fondato su un conflitto di interessi. Con questo non si vuol dire soltanto – sarebbe una lettura del tutto superficiale – che la forza del polo di destra dipende dalla forza economica del suo leader, la quale, a sua volta, dipende dal conflitto d’interessi. Quel che si vuol dire è che questo conflitto d’interessi, e dunque il tipo e lo stile di potere politico ad esso collegato (le violazioni del principio di buona fede legislativa e la lotta con il potere giudiziario: fenomeni, come vedremo, collegati), sono stati accettati dalla maggioranza del popolo italiano, la quale – col voto – si è rispecchiata in essi e li ha riconosciuti come propriamente rappresentativi.
La questione del conflitto di interessi esplose nel 1994 con la nomina dell’on. Silvio Berlusconi alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. A fronte di un atteggiamento estremamente cauto dell’opposizione parlamentare, che temeva i contraccolpi di un disconoscimento della legittimità del leader della coalizione risultata vincitrice a conclusione della prima applicazione del sistema elettorale maggioritario, gran parte dei giuristi (e dei sostenitori della coalizione sconfitta) aveva ritenuto l’on. Berlusconi ineleggibile.
A testimoniare la delicatezza del problema sta il fatto che, immediatamente dopo la sua nomina (10 maggio 1994), il Presidente del Consiglio dei Ministri Berlusconi, con proprio decreto (d.p.c.m. 12 maggio 1994),istituì un Comitato di studio sulla questione del conflitto di interessi. Tale Comitato presentò al Presidente del Senato, il 7 ottobre 1994, un Documento conclusivo, nel quale si asseriva che, all’epoca, l’ordinamento italiano difettava di «una disciplina non degli abusi, ma del pericolo di abusi derivante da tali situazioni»[4].
Il Comitato giunse ad affermare l’esistenza di tale lacuna normativa poiché ritenne irrilevanti, ai fini della soluzione della questione prospettata, le norme vigenti in materia di ineleggibilità e di incompatibilità parlamentare[5], e spostò l’intera sua riflessione dal tema delle ineleggibilità parlamentari a quello delle incompatibilità delle cariche di governo. Potè pertanto affrontare la questione ponendo in primo piano le garanzie costituzionali del diritto di proprietà di imprese e del diritto di elettorato passivo (artt. 51, 42 e 41 Cost.), le quali furono considerate il fondamento per concludere nel senso che «ogni forma di incompatibilità assoluta fra titolarità di impresa e carica di governo od ogni obbligo di dismissione o di alienazione dell’impresa all’atto dell’assunzione della carica di Governo, rischia di incorrere in censure di incostituzionalità»[6].
Il Comitato si limitò ad affermare, infine, l’opportunità – dando per scontato che il problema riguardasse «la mera titolarità (e non la gestione) di interessi ritenuti significativi ai fini della prevenzione di un eventuale conflitto con la corretta gestione della cosa pubblica» (e dando per scontato che tale distinzione fosse effettivamente rilevante) – di sottoporre a controllo da parte di terzi lo svolgimento dell’attività compiuta dal titolare della carica di governo[7].
Tuttavia, secondo una parte rilevante della dottrina, l’ordinamento italiano era all’epoca sicuramente già provvisto di una norma applicabile al caso dell’on. Berlusconi: essa avrebbe dovuto essere ricavata, con un’interpretazione sistematica, dall’art. 10, comma 1, d.P.R. 30 marzo 1957 n. 361 (Testo Unico delle leggi per la elezione della Camera dei deputati) – applicabile anche alle elezioni del Senato ex art. 27 del d.P.R. 20 dicembre 1993 n. 533 – che dichiara ineleggibili coloro che direttamente, o anche solo indirettamente, esercitano un’impresa oggetto di una concessione amministrativa di notevole entità economica (nella specie erano tre le concessioni radiotelevisive rilasciate alla Rti-Fininvest dell’on. Berlusconi), la quale importi l’obbligo di adempimenti specifici e l’osservanza di disposizioni protettive del pubblico interesse (previste, a tal proposito, dalla legge 6 agosto 1990 n. 223)[8].
Era da ritenersi evidente, secondo questa dottrina, che il citato art. 10 comma 1 n. 1 si riferisse «anche a chi controlla l’impresa concessionaria, nonostante che la disposizione prescriva l’ineleggibilità soltanto di coloro che “in proprio o in qualità di rappresentanti legali” risultino vincolati con lo Stato con concessioni di notevole entità economica (…). Il n. 3 del medesimo comma dello stesso articolo estende infatti l’ineleggibilità ai “consulenti legali e amministrativi che prestino in modo permanente l’opera loro alle persone, società e imprese di cui ai nn. 1 e 2, vincolate allo Stato nei modi di cui sopra”». Il che avrebbe dovuto far ritenere «che se è ineleggibile il consulente che lavora “permanentemente” per un dato imprenditore-concessionario, a fortiori deve essere considerato ineleggibile chi, dichiaratamente, è, nella sostanza, il “padrone” dell’impresa concessionaria e, quindi, paga le parcelle di chi assiste la sua impresa». In altre parole, secondo questa dottrina, «per il citato art. 10 comma 1 n. 1 è la sostanza che conta (“coloro che in proprio…”). E quindi le tempestive dimissioni del “padrone” dell’impresa concessionaria, da rappresentante legale di essa, non valgono a mutare i termini del problema»[9].
Come si è detto, a tale conclusione la dottrina perveniva sulla base di un’interpretazione sistematica della disposizione citata, e non analogica: quest’ultima sarebbe stata vietata dall’art. 51 della Costituzione (che sancisce il diritto di tutti i cittadini ad accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge) e dal carattere di eccezionalità delle cause di ineleggibilità[10].
L’impossibilità di configurare un’ipotesi di mera incompatibilità, a sua volta, veniva argomentata sulla base della considerazione che, nel caso di specie, trattandosi in particolare della titolarità di concessioni di diffusione radiotelevisiva, evidente era la ricorrenza della tipica ratio sottesa alle cause di ineleggibilità (evitare un’indebita influenza sulla libera formazione e manifestazione delle opinioni dei cittadini/elettori)[11].
Questo punto di vista non ha però avuto seguito. Il non aver voluto impedire l’instaurazione del conflitto d’interessi, oltre ad aver costituito, come si vedrà, il primo anello di una lunga concatenazione di violazioni del principio di buona fede legislativa, ha così determinato la realizzazione di un fatto di per sé lesivo delle norme costituzionali presupposte che riguardano le forme della lotta politica e la natura della democrazia (come un sistema diverso dalla timocrazia, o nel quale comunque le risorse politiche devono essere distinte da quelle di natura patrimoniale).
La situazione non è cambiata con l’entrata in vigore della Legge 20 luglio 2004, n. 215, recante «Norme in materia di risoluzione dei conflitti di interessi», che ha in sostanza accolto i suggerimenti del Comitato di studio.
Essa, infatti, non va oltre alcune definizioni generiche sul dovere per «i titolari di cariche di governo, nell’esercizio delle loro funzioni», di dedicarsi «esclusivamente alla cura degli interessi pubblici» e di astenersi «dal porre in essere atti e dal partecipare a deliberazioni collegiali in situazioni di conflitto d’interessi» (art. 1). Contiene inoltre un elenco di incompatibilità temporanee per i titolari di cariche di governo rispetto a cariche, uffici, attività professionali o di lavoro, sia nel settore pubblico sia nel settore privato, ma non disciplina in alcun modo l’ipotesi della proprietà o del controllo societario di imprese che abbiano possibili rapporti con le decisioni governative (art. 2, comma 1). Infine, rinviene un conflitto di interessi «quando il titolare di cariche di governo partecipa all’adozione di un atto, anche formulando la proposta, o omette un atto dovuto, trovandosi in situazione di incompatibilità ai sensi dell’articolo 2, comma 1, ovvero quando l’atto o l’omissione ha un’incidenza specifica e preferenziale sul patrimonio del titolare, del coniuge o dei parenti entro il secondo grado, ovvero delle imprese o società da essi controllate, secondo quanto previsto dall’articolo 7 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, con danno per l’interesse pubblico» (art. 3). Dispone che, sull’osservanza della legge, vigilino l’Autorità garante della concorrenza e del mercato e l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (art. 6).

4.- La trasformazione della rappresentanza: la violazione del principio di buona fede legislativa.


La persistenza del conflitto di interessi, non risolto dalla legge intervenuta nel 2004, è la causa ultima delle ripetute violazioni del principio di buona fede legislativa, altrimenti definibile come il principio dell’essenza nazionale della rappresentanza, in virtù del quale il carattere “maggioritario”, e dunque “di parte”, della legislazione non deve tradursi nell’adozione di leggi dettate per la tutela di meri interessi privatistici di chi, pro tempore, è dominus della potestà legislativa. Ad essere precisi, più che di un rapporto causale tra l’uno e l’altro fenomeno, si dovrebbe dire che entrambi sono manifestazioni di un cambiamento profondo della natura della rappresentanza. E’ il suo fondarsi su risorse private che ne determina uno stravolgimento funzionale, abilitandola, per così dire, alla tutela delle forme patrimonialistiche di gestione dei poteri pubblici.
Tale stravolgimento funzionale si è manifestato nella prassi delle ripetute leggi «ad personam», o «sibi et suis», approvate in questi ultimi anni dal Parlamento italiano: il c.d. lodo Schifani[12], poi dichiarato incostituzionale dalla Corte, con il quale si è tentato di sottrarre alla magistratura la valutazione di fatti penalmente rilevanti, anche antecedenti l’assunzione della carica o della funzione, commessi dalle alte cariche dello Stato[13]; la c.d. legge sulle rogatorie internazionali[14], che riguarda la inutilizzabilità nei processi penali celebrati in Italia dei documenti e dei mezzi di prova acquisiti all’estero mediante rogatoria internazionale[15]; la nuova disciplina sul falso in bilancio[16], che ha declassato le false comunicazioni sociali da delitto a semplice contravvenzione[17]; la c.d. legge Cirami sul «legittimo sospetto»[18], che ha violato il principio costituzionale del giudice naturale precostituito[19]; la legge che prevede l’estensione del condono edilizio alle zone protette[20]; la nuova disciplina in materia di sistema radiotelevisivo[21], ecc. ecc.
Quest’ultima legge costituisce un sintomo particolarmente grave della crisi costituzionale italiana.
Al di là del merito della questione (al di là del fatto che la nuova disciplina non faccia che prolungare, ancora una volta, la fase “transitoria” del sistema dell’analogico terrestre, semplicemente sovrapponendogli quello del digitale), la vicenda è da segnalare perché il silenzio nel quale sono stati lasciati i numerosi richiami dei diversi organi di garanzia costituisce grave sintomo di assoluta noncuranza nei confronti delle istituzioni. Sin dall’inizio del lungo iter legislativo - con la presentazione alla Camera dei deputati, il 25 settembre 2002, del disegno di legge n. 3184 - il Governo aveva infatti mostrato di voler mantenere a ogni costo lo status quo della disciplina in materia, a dispetto dei numerosi moniti pervenuti da parte di tutti gli organi di garanzia dello Stato: della Corte costituzionale[22], del Capo dello Stato[23], del Presidente dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni[24], del Presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato[25].

5. – La trasformazione della rappresentanza: il conflitto con il potere giudiziario.


Del nesso tra patrimonialismo (conflitto di interessi) e lotta per difendere le forme patrimonialistiche di esercizio del potere (compresi i loro antefatti puramente privati) si è già detto. Il profilo più aspro di questa lotta è stato lo scontro ingaggiato con il potere giudiziario. Non potendo qui seguirne le complesse vicende, nella loro connessione con lo svolgimento di diversi processi penali, basterà accennare alla riforma dell’ordinamento giudiziario, che costituisce il momento riassuntivo ed emblematico di questo scontro. Il relativo disegno di legge delega ha avuto un tormentatissimo iter parlamentare: il che dimostra non l’esistenza di un serrato confronto sul merito dei problemi con l’opposizione parlamentare o con la magistratura, ma piuttosto l’intensità delle divisioni interne alla maggioranza.
Nato come progetto di esclusiva matrice ministeriale, il disegno di legge recante la «delega per la riforma dell’ordinamento giudiziario e disposizioni in materia di conferimento delle funzioni di legittimità e di organico della corte di Cassazione» fu approvato dal Consiglio dei ministri il 14 marzo 2002. E’ stato poi integralmente riscritto alla Camera dei deputati per effetto di un primo maxiemendamento (elaborato da un ristretto comitato di “saggi”) approvato dal Consiglio dei ministri il 12 marzo 2003; modificato al Senato, è stato riapprovato alla Camera in una versione rimaneggiata da un secondo maxiemendamento che apportava rilevanti modificazioni al testo approvato dalla Commissione Giustizia della Camera nella seduta dell’11 maggio 2004. Su questo secondo “maxiemendamento” il Governo chiese ed ottenne la fiducia nella seduta della Camera dei deputati del 29 giugno.
Va segnalato che il ricorso ai cosiddetti maxiemendamenti (elaborati al di fuori delle Camere e soprattutto presentati ex abrupto) e la posizione della questione di fiducia sull’ultimo di essi (comprendente in pratica l’intero testo della riforma) hanno drasticamente compresso il ruolo dei parlamentari e leso la correttezza dello svolgimento del processo legislativo[26].
Dopo essere stata approvata in via definitiva dal Parlamento, la legge è stata infine rinviata alle Camere il 16 dicembre 2004 dal Presidente della Repubblica.
Quanto al merito della legge - che ha suscitato infinite polemiche, per profili di incostituzionalità puntuali e soprattutto per profili di incostituzionalità di sistema - sarà qui sufficiente ricordare i motivi che il Presidente della Repubblica ha posto alla base del suo rinvio.
Essi possono essere sintetizzati in quattro punti. Il primo si riferisce alla incostituzionalità dell’art. 2, comma 31, lettera a) della legge, nella parte in cui attribuisce al Ministro della giustizia il potere di rendere comunicazioni alle Camere anche «sulle linee di politica giudiziaria per l’anno in corso». Dopo aver evidenziato puntuali profili d’incostituzionalità della disposizione citata (ex artt. 101, 104, 110 e 112, Cost.), il Presidente conclude nel senso che «la norma approvata dalle Camere configura un potere di indirizzo in capo al Ministro della giustizia, che non trova cittadinanza nel titolo IV della Costituzione, in base al quale l’esercizio autonomo e indipendente della funzione giudiziaria è pienamente tutelato, sia nei confronti del potere esecutivo, sia rispetto alle attribuzioni dello stesso Consiglio superiore della magistratura».
Strettamente connesso alla prima questione è il secondo motivo d’incostituzionalità rilevato dal Presidente della Repubblica, rispetto al criterio direttivo della delega indicato dall’art. 2, comma 14, lettera c), che riguarda «l’istituzione presso ogni direzione generale regionale o interregionale dell’organizzazione giudiziaria dell’ufficio per il monitoraggio dell’esito dei procedimenti, in tutte le fasi o gradi del giudizio, al fine di verificare l’eventuale sussistenza di rilevanti livelli di infondatezza giudiziariamente accertata della pretesa punitiva manifestata con l’esercizio dell’azione penale o con mezzi di impugnazione ovvero di annullamento di sentenze per carenze o distorsioni della motivazione, ovvero di altre situazioni inequivocabilmente rilevatrici di carenze professionali». Anche in questo caso il Presidente della Repubblica ha sollevato dubbi di incostituzionalità sotto il profilo dell’autonomia e dell’indipendenza della funzione giudiziaria, ex artt. 101, 104, 110 e 112 della Costituzione.
Il terzo rilievo riguarda la facoltà che l’art. 1, comma 1, lettera m) riconosce al Ministro della Giustizia di «ricorrere in sede di giustizia amministrativa contro le delibere (del Consiglio Superiore della Magistratura) concernenti il conferimento o la proroga di incarichi direttivi adottate in contrasto con il concerto o con il parere previsto al n. 3». Tale previsione, rileva il Presidente, contrasta con l’art. 134 della Costituzione nella parte in cui stabilisce che è la Corte costituzionale a giudicare sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato, compresi quindi i conflitti tra Consiglio superiore della magistratura e Ministro della giustizia relativi alle procedure per il conferimento o la proroga degli incarichi direttivi.
Infine, l’ultimo, e forse più importante, rilievo riguarda la menomazione dei poteri del Consiglio superiore della magistratura risultante da diverse disposizioni della legge delega. In particolare, l’art. 105 della Costituzione, in forza del quale «spettano al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati», sarebbe violato in quanto «il sistema delineato nella legge delega colloca al centro di ogni procedura concorsuale la Scuola superiore della magistratura, struttura esterna al Consiglio superiore, e apposite commissioni, anch’esse esterne allo stesso Consiglio (…). Il sistema (…) sottopone sostanzialmente il Consiglio superiore della magistratura a un regime di vincolo che ne riduce notevolmente i poteri definiti nel citato articolo 105 della Costituzione».
Quest’ultimo rilievo sta a dimostrare la fondatezza dei dubbi di incostituzionalità di sistema che l’intero impianto della legge suscita, e che non sono stati superati dall’approvazione definitiva della legge 25 luglio 2005, n. 150.

6.- L’uso improprio del potere di revisione.


Per quanto riguarda l’evocazione di discontinuità costituenti, occorre ricordare che, in questi anni, il potere di revisione costituzionale è stato usato due volte ai limiti della sua natura di “potere costituito”. Una prima volta con l’approvazione della legge costituzionale 24 gennaio 1997 n. 1, con la quale si era istituita una Commissione parlamentare per le riforme costituzionali che avrebbe dovuto operare entro un procedimento di revisione diverso da quello disciplinato dall’art. 138 della Costituzione.
Al di là dei contenuti specifici del progetto elaborato da tale Commissione[27] - intensamente negoziato tra maggioranza e opposizione, e poi naufragato in sede di discussione parlamentare (ove l’allora opposizione di destra “rovesciò il tavolo” a causa di resistenze manifestatesi nelle constituencies dei partiti che la componevano) - la legge costituzionale n. 1 del 1997 si pose come fonte sulla produzione di un diritto costituzionale nuovo, destinato a restare in vigore dopo l’esaurimento della “temporanea” disciplina “di rottura” posta in deroga all’art. 138[28]. E’ evidente la lesione del principio di rigidità di cui questa soluzione costituì precedente.
Anche se non presentò i caratteri di un’evocazione del potere costituente sub specie di una utilizzazione della procedura ex art. 138, va qui ricordato l’uso per lo meno incauto che della procedura di revisione si fece con l’approvazione della legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3, che ha modificato l’intero Titolo V (artt. 114 – 133) della Costituzione.
Malgrado si fosse registrato, su questa legge, un ampio consenso, l’allora opposizione di destra, all’ultimo, essendo vicine le elezioni politiche, ne rifiutò l’approvazione (per problemi di constituency analoghi a quelli che portarono al precedente fallimento della Bicamerale). L’allora maggioranza di centrosinistra non volle desistere, ed approvò la legge con pochissimi voti di scarto. Per dimostrare l’esistenza di un largo sostegno ai contenuti della riforma, malgrado l’esiguità del voto, le stesse forze di centro sinistra chiesero il referendum previsto dal secondo comma dell’art. 138 della Costituzione.
La vicenda è stata segnalata poiché con essa furono stabiliti due precedenti pericolosi: il primo, l’approvazione di una legge costituzionale a colpi di maggioranza; il secondo, la trasformazione del referendum ex art. 138 da oppositivo a confermativo-plebiscitario.
La seconda – e più grave - utilizzazione ultra vires del procedimento di revisione è quella che si è concretata nell’approvazione, in seconda deliberazione, del disegno di legge costituzionale recante «Modifiche alla Parte II della Costituzione».
Come si è già sottolineato, questo disegno di legge, presentato dalle attuali forze di maggioranza, non costituisce un sintomo isolato, nell’ambito della cultura istituzionale italiana, del diffuso giudizio negativo sulla Costituzione vigente, e della conseguente volontà di riformarla, anche nei suoi contenuti etico-politici fondamentali, nonostante il ricorrente riferimento retorico (oltre che nel dibattito pubblico, anche nella rubrica di questo e di altri tentativi di riforma) alla volontà di riformare solo la «seconda parte» della Costituzione: con ciò intendendo i soli profili organizzativi, non coinvolgenti i principi protetti dalla irrevedibilità. Il generale apprezzamento di principio, nel quale si era tradotto, salve poche eccezioni, l’atteggiamento intellettuale dominante nei confronti della Costituzione originaria fino ai primi anni Novanta del secolo scorso, è ormai venuto meno, anche nella cultura istituzionale dell’opposizione, e negli ultimi decenni la retorica della necessità delle riforme non ha conosciuto limiti di colore politico.
Il disegno di legge costituzionale, che comunque non ha ancora concluso il suo iter, corona dunque il lungo processo di allontanamento dalla Costituzione del ’47, che ha preso avvio alla fine degli anni ‘70. Mira a sancire una discontinuità sostanziale con quella Carta, raccogliendo ed esasperando gli umori che si sono diffusi in questi decenni: rifiuto del proporzionalismo[29] e del parlamentarismo, suggestioni presidenzialistiche, o comunque favorevoli alla personalizzazione del potere, federalismo, ridimensionamento dello stato sociale. I suoi contenuti delineano non più una costituzione “armistiziale”, come erano quelle del secondo dopoguerra, ma una costituzione “di combattimento”, sia nel lungo periodo (la revanche della destra contro l’egemonia altrui enfaticamente denunciata, e di cui ci si vuole anche simbolicamente liberare) sia nel breve periodo, nella lotta per il mantenimento della compattezza della maggioranza di governo.
Non è inutile sottolineare, a quest’ultimo proposito, il fatto che il disegno di legge costituzionale in oggetto sia stato inserito dalle forze politiche dell’attuale maggioranza in una transazione interna che contemplava, tra le poste principali, la soluzione della questione delle televisioni e il conferimento alle regioni della potestà legislativa assoluta in determinate materie, tale da poter propagandisticamente realizzare la c. d. devolution (per placare gli spiriti secessionisti della Lega Nord). Il nesso risulta evidentissimo dalla scansione temporale dei lavori parlamentari. Il disegno di legge c. d. Gasparri sul sistema radiotelevisivo era stato rinviato alle Camere dal Presidente della Repubblica, per motivi di incostituzionalità[30]. Una nuova versione fu approvata dalla Camera il 24 marzo 2004. Prima di essere approvata in via definitiva dall’altro ramo del Parlamento (29 aprile 2004), il Senato approvò (il 25 marzo 2004), in prima lettura, il disegno di legge di revisione costituzionale[31].
Sotto il profilo dei contenuti, ci limiteremo qui a segnalare le principali novità che il disegno di legge contiene.
La nuova versione dell’art. 92, comma 2, prevede la candidatura alla carica di “Primo ministro” attraverso il meccanismo del collegamento del premier con i candidati – o con una o più liste di candidati – all’elezione della Camera dei deputati (va ricordato in proposito che già nelle consultazioni del 1996 e del 2001 i nomi dei leader delle coalizioni erano stati scritti nei simboli presenti sulle schede).
Gli artt. 88 e 94, commi 3-5, disciplinano il rapporto di fiducia, ed introducono innovazioni molto lontane dalle tradizioni del parlamentarismo: non solo l’investitura (di fatto) diretta del Primo ministro (nuova denominazione che in Italia non ha precedenti, se non in epoca fascista) fa venire meno la necessità per il Governo di ottenere formalmente la fiducia iniziale da parte del Parlamento, ma dalle nuove disposizioni emerge che, in generale, è la stessa esistenza dell’organo rappresentativo a venire indissolubilmente legata alla volontà del Primo Ministro. E’ previsto infatti lo scioglimento anticipato della Camera: a) su richiesta da parte del Primo ministro, o dimissioni o morte dello stesso, oppure b) a seguito di approvazione della mozione di sfiducia (o suo rigetto con voti decisivi della minoranza).
Si tratta di un potere di scioglimento senza limiti. Lo scioglimento stesso, infatti, può essere impedito solo se, nel primo caso, la stessa maggioranza uscita dalle elezioni esprima, con una mozione, la volontà di continuare l’attuazione del programma con un nuovo Primo ministro, e se, nel secondo caso, la mozione di sfiducia contenga la designazione di un nuovo Primo ministro da parte dei deputati appartenenti alla stessa maggioranza espressa dalle elezioni. Dovendo, le mozioni in parola, essere approvate a maggioranza assoluta, e dovendo, tale maggioranza, coincidere con quella uscita dalle elezioni (o esserne comunque interna), ne deriva che la sostituzione del Primo ministro è impossibile. L’obbligo di autosufficienza della maggioranza iniziale (uscita dalle elezioni) è rigidissimo, al punto che, se le mozioni sono approvate con voti decisivi provenienti dall’opposizione, si hanno per respinte (nel secondo caso, la mozione è respinta come mozione “costruttiva”). E’ ovvio che qualora – come è normale che sia – il Primo Ministro disponga di una pattuglia di fedelissimi, che impedisca alla maggioranza originaria di raggiungere il numero di voti sufficienti per essere assoluta, lo scioglimento non potrebbe essere impedito.
Il potere del Primo ministro è ulteriormente rafforzato dall’art. 94, comma 2, che prevede che egli possa «chiedere che la Camera dei deputati si esprima, con priorità su ogni altra proposta, con voto conforme alle proposte del Governo. In caso di voto contrario, il Primo ministro rassegna le dimissioni e può chiedere lo scioglimento della Camera dei deputati».
Per quanto riguarda il procedimento legislativo, il progetto di riforma intende porre fine al bicameralismo perfetto, differenziando i ruoli di Camera e Senato attraverso la previsione di tre distinti procedimenti: uno bicamerale, uno a prevalenza della Camera, l’altro a prevalenza del Senato federale (art. 70). Il procedimento bicamerale si differenza dall’attuale bicameralismo perfetto solo per la possibilità di ricorrere, al posto della cd. navette, alla convocazione di una commissione mista, paritetica, incaricata di proporre un testo unificato da sottoporre al voto finale delle due assemblee. Si applicherà in alcune materie esplicitamente individuate, tra cui: determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali; legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali degli enti locali; finanza regionale e locale; poteri sostitutivi dello Stato; sistema elettorale di Camera e Senato federale; conferimento di funzioni agli enti locali; principi fondamentali del sistema elettorale regionale. Il procedimento monocamerale a prevalenza della Camera si articola nella deliberazione della Camera, nell’eventuale proposta di introdurre modifiche da parte del Senato e nella decisione definitiva della Camera. È previsto per le materie di potestà esclusiva statale (salvo quelle riservate al procedimento bicamerale). Infine, il procedimento monocamerale a prevalenza del Senato federale opererà attraverso l’approvazione da parte del Senato, cui faranno eventualmente seguito la proposta di modifiche avanzata dalla Camera e la decisione finale del Senato. Peraltro, essendo quest’ultimo estraneo al rapporto fiduciario con il governo, nell’ambito di tale procedimento non sarà ipotizzabile il ricorso alla fiducia per ottenere l’approvazione di un dato provvedimento legislativo. Il governo potrà però proporre delle modifiche al progetto di legge e dichiararle essenziali per l’attuazione del programma; in tal caso il Presidente della Repubblica, verificati i presupposti costituzionali, deciderà se autorizzare il Primo ministro a esporre le motivazioni del governo al Senato, che valuterà se accoglierle entro trenta giorni: se non le approverà il disegno di legge verrà trasmesso alla Camera, che deciderà in via definitiva a maggioranza assoluta dei componenti. È previsto per la fissazione dei principi nelle materie di competenza concorrente tra Stato e Regioni (salvo quelle riservate al procedimento bicamerale).
La macchinosità dell’ipotesi è aggravata dal fatto che la ripartizione delle materie attribuite ai diversi procedimenti è tabellare e prolissa: il che renderà inevitabile un contenzioso interpretativo con effetti sicuramente paralizzanti.
Per quanto riguarda gli organi di garanzia, il dato rilevante da segnalare si ricava dalla nuova versione degli artt. 86 e 88: all’accrescimento dei poteri del premier corrisponde la riduzione di quelli del Capo dello Stato, che perde sia il potere di decisione sullo scioglimento del Parlamento sia il potere di nomina del governo. Peraltro, il Presidente mantiene un ruolo decisivo nel consentire o meno al governo di superare l’opposizione del Senato all’approvazione di un disegno di legge governativo nelle materie di competenza concorrente tra Stato e Regioni.
Quanto alla Corte costituzionale, gli artt. 127-bis e 135 ne modificano la composizione aumentando i giudici di nomina politica (da cinque a sette, di cui tre eletti dalla Camera e quattro dal Senato federale) e ampliano il novero dei soggetti legittimati a proporre ricorso in via principale includendovi Comuni, Province e Città metropolitane (in questo modo la Corte diventa sempre più organo arbitrale dei conflitti tra centro e periferia, a scapito della sua funzione di giudice delle leggi).
Per quanto riguarda la forma di Stato, il progetto di revisione costituzionale prevede, da un lato, l’introduzione del Senato federale (artt. 55, 57 e 60), mantenendo l’attuale sistema di elezione dei senatori, ma rendendo la loro elezione contestuale a quella dei Consigli regionali (per cui non ci sarà più una durata del Senato come organo in sé, ma ciascun senatore resterà in carica quanto il Consiglio regionale della Regione in cui è stato eletto; se la legislatura regionale finisce anticipatamente, anche tutti i senatori eletti in quella Regione decadono e si torna a nuove elezioni), e, dall’altro, una nuova disciplina dell’assetto dei rapporti tra Stato e Regioni. La nuova versione dell’art. 117 prevede, con riguardo alle competenze legislative, che alcune materie siano ricentralizzate e altre inserite tra le competenze esclusive delle Regioni (assistenza e organizzazione sanitaria; organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione; definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione; polizia amministrativa regionale e locale: la cosiddetta devolution, che tanto ha fatto discutere per i profili anti-redistributivi, e sostanzialmente anti-meridionalistici, che presenta, e in cui molti hanno visto un esplicito attentato al principio di uguaglianza sostanziale previsto dall’art. 3, secondo comma). Anche qui, la prolissità dell’elencazione delle materie attribuite alla competenza esclusiva dello Stato, alla competenza esclusiva delle Regioni o a quella concorrente rappresenta un dato stupefacente di ingenuità (o di sabotaggio). Non si riesce a comprendere come si sia potuto credere (ma la critica va rivolta anche agli estensori del testo oggi in vigore, prodotto dalla riforma del 2001) che elenchi così minuti e prolissi possano, se non essere autoapplicativi, per lo meno consentire un contenzioso limitato entro limiti fisiologici, e non invece esasperare le interpretazioni più capziose e il conflitto endemico.
Infine, per quanto riguarda la nuova disciplina del procedimento di revisione costituzionale, la riforma introduce la possibilità di richiedere sempre il referendum costituzionale in caso di modifica della Costituzione, a prescindere dalla maggioranza schieratasi a favore della modifica. Questa modifica ha due importanti conseguenze: in primo luogo, viene meno l’incentivo alla ricerca di larghe intese; in secondo luogo, la trasformazione del referendum da oppositivo in confermativo stravolge il disegno costituzionale per il quale il ricorso al popolo è l’extrema ratio di chi vuole impedire la revisione.

7.- Provvisorie conclusioni.


I rapidi cenni, meramente descrittivi, sopra esposti non riescono a restituire pienamente l’immagine del “premierato assoluto” che si vuole instaurare, e della lontananza tra il modello di democrazia presupposto e quello che la Costituzione del ‘47 immaginava di realizzare. Più che tentare una sintetica esegesi del testo, in chiusura, è probabilmente più opportuno cercare di tratteggiare un bilancio degli esiti che può avere la crisi in atto. Si è detto della debolezza in cui si trova la “resistenza” agli umori “revisionistici” che da anni dilagano, e di come l’opposizione parlamentare, da un lato, sia stata impotente nelle aule, data la forza dei numeri, ma, dall’altro, non abbia mobilitato l’opposizione sociale, lasciando la “difesa della Costituzione” a movimenti d’opinione spontanei.
La situazione, però, sta probabilmente cambiando, sotto la spinta di quattro ordini di fattori. In primo luogo, i ripetuti insuccessi elettorali della maggioranza di governo, il più grave dei quali (l’esito delle elezioni regionali e amministrative svoltesi il 3 e il 4 aprile 2005) va fatto risalire in buona parte ai timori suscitati proprio dalla revisione costituzionale in corso, e, in particolare, dall’ispirazione anti-redistributiva, e più propriamente anti-meridionalistica, della riforma federale. In secondo luogo, l’evidenza del fatto che la crisi economica che colpisce l’Italia è più grave di quella che colpisce gli altri paesi dell’Unione europea: dunque l’evidenza del fatto che tale differenziale è causato da caratteristiche specifiche della politica nazionale, e dunque – qui sta il punto determinante – l’evidenza del fatto che le politiche liberistiche (privatizzazioni, precarizzazioni, detassazioni …) sono improponibili come antidoto alla crisi in atto perché la caratteristica della politica economica nazionale è consistita esattamente nell’esasperazione di queste politiche. In terzo luogo, l’aut-aut imposto dal procedimento di revisione costituzionale, che, a fronte di modifiche votate dalla sola maggioranza, rende politicamente inevitabile il referendum, il quale, a sua volta, data la necessità di semplificare i messaggi e le indicazioni di voto, rende impossibile opporsi alla revisione senza rivalutare la Costituzione “violata”. Infine, e soprattutto, l’incrinarsi del modello culturale che aveva ispirato la lunga stagione della rivoluzione passiva reaganiana e thatcheriana, e che ha continuato ad alimentare le suggestioni individualistiche e privatistiche (sul piano morale) e maggioritarie e leaderistiche (sul piano istituzionale) che hanno dominato fino agli anni più recenti: modello culturale del quale l’opposizione italiana, nelle sue componenti prevalenti, è stata senza dubbio succube. L’inquietante corso neoconservatore, intriso di fondamentalismo religioso, degli Usa, la caduta di consensi che ha colpito il “new labour” nel Regno Unito (e la perplessità sui risultati delle sue politiche), la vittoria dei socialisti spagnoli, le crescenti resistenze che incontra il modello europeo in chi lo ritiene troppo sbilanciato verso le ragioni di un’economia che pretende di sottrarsi alla regolazione redistributrice della politica (che si sono tradotte in Francia e in Olanda nel rifiuto referendario della ratifica del Trattato sulla costituzione europea), il logoramento della retorica dei diritti nel giustificare una politica estera che, nei suoi rapporti con il terzo e quarto mondo, si dimostra sanguinaria e priva di prospettive … sono fenomeni certamente disomogenei, ma che, più o meno confusamente, vengono tutti percepiti come sintomi della perdita di egemonia del modello che ha imperato da quasi tre decenni.
Il concorso di questi quattro fattori sembra aver modificato la situazione, e rendere anche culturalmente possibile – oltre che politicamnete inevitabile, dato l’aut aut imposto dal referendum – che i partiti dell’attuale opposizione assumano un atteggiamento di netto rifiuto nei confronti del progetto di revisione, e di rivalutazione della continuità e del valore della Costituzione del ’47. Atteggiamento non facile, perché comporta la sconfessione di molte posizioni “riformistiche” assunte nel recente passato. Ma che potrebbe aprire una nuova stagione di costruttiva e rispettosa elaborazione costituzionale.




Note:
* Mario Dogliani è autore dei paragrafi 1-2-5-7; Ilenia Massa Pinto è autrice dei paragrafi 3-4-6. Una versione del presente saggio, con alcune variazioni, è stata pubblicata in Teorìa y Realidad Constitucional, 2005, n. 16.

[1] Ad aprire il dibattito sulla modifica della Costituzione fu, verso la fine degli anni Settanta, la «grande riforma», orientata in chiave presidenzialistica, proposta da Bettino Craxi e da Guiliano Amato, la quale avrebbe consentito al leader socialista, da un lato, di assumere un ruolo di rilievo anche con un piccolo partito, valorizzando all’estremo il suo potere di coalizione, e, dall’altro, di ridurre il PCI al rango a cui Mitterand aveva ridotto il PCF. Il 27 settembre 1979, sull’«Avanti!», Craxi lanciava la «Grande Riforma dello Stato», ritenuta necessaria perché «anche gli edifici più solidi e meglio costruiti, e il nostro edificio costituzionale ha dimostrato di esserlo – dichiarava Craxi – si misurano con il logorio del tempo».
[2] Dopo l’assassinio di Aldo Moro terminò l’esperienza della Solidarietà Nazionale e il PCI venne respinto di nuovo all’opposizione. Le elezioni del 1979 consentirono nuove maggioranze e le posizioni assunte dal nuovo leader del PSI, Bettino Craxi, favorirono un accordo diretto tra DC-PSI e laici che escludesse il PCI. Con il mutato quadro politico, le correnti di centro-destra democristiana ripresero la guida del partito e nel 1980, durante il XIV Congresso della DC, quando il leader dell’area conservatrice, Flaminio Piccoli, divenne il nuovo segretario del partito, fu approvato un «Preambolo», con il quale si escludeva un’alleanza con il PCI.
[3] La guerra partigiana, sorta come movimento di massa all’indomani dell’occupazione tedesca, trovò il suo centro coordinatore nel Comitato di Liberazione Nazionale, nel quale confluirono tutti i partiti antifascisti. Il CLN nasce il 9 settembre 1943 in un momento in cui i reciproci rapporti di forza tra le diverse organizzazioni all’epoca politicamente dominanti erano ancora ignoti: la Costituzione italiana nasce come patto stipulato da questi soggetti collettivi che vogliono stabilizzare in essa i principi etico-politici di cui sono portatori e sui quali intendono fondare una nuova convivenza.
[4] Atti Sen., XII leg., I Comm. affari cost., p. 1. La sintesi del contenuto di tale documento si trova in A. Pace, Ineleggibilità, incompatibilità e conflitto di interessi dei parlamentari e dei titolari di organi di governo, in S. Cassese – B. G. Mattarella (a cura di), Democrazia e cariche pubbliche, Bologna, 1996, pp. 53 ss.
[5] Ibidem, p. 7.
[6] Ibidem, p. 38.
[7] Ibidem, p. 39.
[8] Infatti, in attuazione della riserva di legge prevista dall’art. 65, comma 1, Cost., secondo cui «la legge determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di deputato o di senatore», l’art. 10, comma 1, cit., prevede che non sono eleggibili, tra gli altri:
1.«coloro che in proprio o in qualità di rappresentanti legali di società o di imprese private risultino vincolati con lo Stato per contratti di opere o di somministrazione, oppure per concessioni o autorizzazione amministrative di notevole entità economica, che importino l’obbligo di adempimenti specifici, l’osservanza di norme generali o particolari protettive del pubblico interesse, alle quali la concessione o la autorizzazione è sottoposta;
2.i rappresentanti, amministratori e dirigenti di società e imprese volte al profitto di privati e sussidiate dallo Stato con sovvenzioni continuative o con garanzia di assegnazioni o di interessi, quando questi sussidi non siano concessi in forza di una legge generale dello stato;
3.i consulenti legali e amministrativi che prestino in modo permanente l’opera loro alle persone, società e imprese di cui ai nn. 1 e 2, vincolate allo stato nei modi di cui sopra».
[9] Così A. Pace, Ineleggibilità, incompatibilità e conflitto di interessi dei parlamentari e dei titolari di organi di governo, cit., pp. 54-55. Altra parte della dottrina, come ricordato dallo stesso A., giungeva alle medesime conclusioni, sebbene in modo più prudenziale, sostenendo la possibilità di considerare, seppure solo de jure condendo, ricompreso nel citato art. 10 comma 1 n. 1 l’ipotesi della ineleggibilità di chi, «direttamente o indirettamente», controlla la società titolare di una concessione radiotelevisiva (G. Amato, Saggi a volontà, ne La Voce, 25 ottobre 1994).
[10] In questo senso, si vedano, fra le tante, Corte costituzionale, sentenze nn. 42 del 1961, 46 del 1969, 166 del 1972, 1020 del 1988, 235 e 510 del 1989, 53 e 539 del 1990.
[11] Cfr. A. Pace, Ineleggibilità, incompatibilità e conflitto di interessi dei parlamentari e dei titolari di organi di governo, cit., p. 63.
[12] Art. 1 – dichiarato incostituzionale dalla Corte con la sentenza n. 24 del 2004 – della Legge 20 giungo 2003, n. 140, recante «Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato»: «1. non possono essere sottoposti a processi penali, per qualsiasi reato anche riguardante fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione, fino alla cessazione delle medesime: il Presidente della Repubblica, salvo quanto previsto dall’articolo 90 della Costituzione, il Presidente del Senato della Repubblica, il Presidente della Camera dei deputati, il Presidente del Consiglio dei ministri, salvo quanto previsto dall’articolo 96 della Costituzione, il Presidente della Corte costituzionale. 2. Dalla data di entrata in vigore della presente legge sono sospesi, nei confronti dei soggetti di cui al comma 1 e salvo quanto previsto dagli articoli 90 e 96 della Costituzione, i processi penali in corso in ogni fase, stato o grado, per qualsiasi reato anche riguardante fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione, fino alla cessazione delle medesime».
[13] E’ appena il caso di ricordare, da un lato, la circostanza di fatto che, al momento dell’entrata in vigore della legge, tra i titolari delle cinque alte cariche indicate dalla legge stessa, soltanto l’attuale Presidente del Consiglio dei Ministri risultava avere pendenze penali, e, dall’altro, la considerazione che, delle cinque cariche interessate alla sospensione processuale, soltanto la carica di Presidente del Consiglio dei Ministri non prevede una scadenza certa.
L’approvazione della legge n. 140 ha peraltro riaperto il dibattito sulla più ampia questione delle immunità e prerogative parlamentari (delle quali ovviamente potrebbero giovarsi anche i parlamentari che ricoprono cariche di governo) e sulla possibilità di reintrodurre l’art. 68 della Costituzione nella sua formulazione originaria (modificata dalla legge costituzionale 29 ottobre 1993, n. 3), la quale prevedeva, come noto, l’autorizzazione a procedere. Su tale possibilità v., in termini fortemente critici, A. Pace, La legge n. 140/2003 e i principi costituzionali violati, in Studi in onore di Gianni Ferrara, vol. III, Torino, 2005, pp. 15 ss.
Tuttavia, accanto alla deprecabile giurisprudenza parlamentare, che, a partire soprattutto dalla III Legislatura, si è caratterizzata per aver coperto, col diniego dell’autorizzazione a procedere, reati non solo squisitamente politici, ma anche reati, per così dire, «simoniaci» (di compra-vendita di attività politiche, non necessariamente parlamentari, pur se commesse da parlamentari), è necessario ricordare la ratio originaria delle immunità e, dunque, del principio della rappresentanza – e di una sua peculiare funzione – di cui quelle immunità sono uno strumento di tutela: «le immunità, con i loro due cerchi concentrici – l’irresponsabilità, che tutela una sfera di comportamenti individuati oggettivamente, e l’inviolabilità, che tutela una sfera di comportamenti individuati caso per caso – svolgono una funzione protettiva che è strumentale a garantire quella che potremmo chiamare la funzione “proiettiva” della rappresentanza. Le immunità valgono cioè ad assicurare la totale libertà del Parlamento nella scelta dei comportamenti che realizzano la funzione rappresentativa: comportamenti che non si identificano soltanto con gli atti giuridicamente nominati in cui si articola la funzione parlamentare intesa in senso stretto, ma comprendono tutti quegli atti che, anche – o proprio perché – illeciti, sono giudicati dal Parlamento stesso come carichi di un significato simbolico relativo agli sviluppi possibili dell’ordinamento, e che proprio in quanto tali sono “rappresentativi”. E’ da questo punto di vista che il controllo del giudice diventa inammissibile. Non si deve dimenticare che il Parlamento subalpino aveva vittoriosamente stabilito, fin dai primi anni dall’entrata in vigore dello Statuto, che mentre il re era vincolato alla carta, il Parlamento aveva il diritto di interpretarla in modo evolutivo, al fine di realizzare un sistema parlamentare sempre più compiuto: questo stava a significare che il potere parlamentare era superiore alla prerogativa regia, e che essa era recessiva rispetto al primo. Mentre il Parlamento poteva interpretare le prerogative del sovrano, il sovrano – e i suoi giudici – non potevano interpretare le prerogative del Parlamento. A Luigi Palma che, a fronte della pretesa delle Camere di avere il monopolio dell’interpretazione delle immunità, polemicamente si chiedeva: “Cosa si dovrebbe dire di un Re se, come in altri tempi e casi Carlo I e Giacomo II in Inghilterra e Carlo X in Francia, volesse determinare egli stesso l’estensione della sua prerogativa?”, si sarebbe dovuto rispondere, semplicemente, che quei re avevano perso, mentre il Parlamento aveva vinto, proprio sul quel punto. In quest’ottica si comprende meglio perché, dato questo potere interpretativo primario sulle linee di sviluppo della costituzione, il parlamento dovesse godere di un’irresponsabilità politica assoluta, che gli consentisse di proteggere non solo le proprie opinioni enunciate e le proprie decisioni assunte (irresponsabilità), ma anche i comportamenti, a suo giudizio, rappresentativamente rilevanti, pur se illeciti (inviolabilità)» (così M. Dogliani, Immunità e prerogative parlamentari, in Storia d’Italia, Annali 17, Il Parlamento, a cura di L. Violante, Torino, 2001, pp. 1047-1048).
[14] Legge 5 ottobre 2001, n. 367, recante «Ratifica ed esecuzione dell’Accordo tra Italia e Svizzera che completa la Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 20 aprile 1959 e ne agevola l’applicazione, fatto a Roma il 10 settembre 1998, nonché conseguenti modifiche al codice penale ed al codice di procedura penale».
[15] In particolare, oltre a estendere le ipotesi di inutilizzabilità, la legge si preoccupava di rendere applicabili le relative disposizioni anche a quei procedimenti in relazione ai quali il GUP avesse già provveduto a formare il fascicolo per il dibattimento, nel qual caso l’inutilizzabilità avrebbe dovuto essere rilevata, anche d’ufficio, dal giudice del dibattimento entro la prima udienza successiva all’entrata in vigore della legge.
[16] Decreto legislativo 11 aprile 2002, n. 61, recante «Disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali, a norma dell’articolo 11 della legge 3 ottobre 2001, n. 366», che ha modificato gli artt. 2621 e 2622 del codice civile.
[17] Ai dubbi sulla conformità del decreto all’obbligo comunitario di punire con sanzioni che abbiano un carattere «effettivo, proporzionale e dissuasivo» le falsità in scritture contabili, non ha dato risposta soddisfacente la Corte di giustizia europea, alla quale i giudici italiani – tra gli altri anche quelli milanesi che si occupano del processo Sme, in cui è imputato Silvio Berlusconi – si erano rivolti ex art. 234 (ex art. 177) del Trattato comunitario. La Corte, infatti, non si è pronunciata nel merito, e si è limitata a rilevare l’impossibilità di invocare una direttiva comunitaria per farne derivare l’effetto di determinare o di aggravare la responsabilità penale degli imputati in un processo. Sul punto v. le considerazioni di V. Onida, Quando il giudice decide a metà, ne Il Sole 24 Ore, 4 maggio 2005. Per la ricostruzione dell’intera vicenda v. L. Mezzetti, Il falso in bilancio fra Corte di giustizia e Corte costituzionale italiana (passando attraverso i principi supremi dell’ordinamento costituzionale...), in www.giurcost.org/studi/mezzetti.html.
[18] Legge 7 novembre 2002, n. 248, recante «Modifica degli articoli 45, 47, 48 e 49 del codice di procedura penale».
[19] In contrasto con il principio costituzionale del giudice naturale precostituito prevede non meglio specificati motivi di «legittimo sospetto» come causa di rimessione del processo ad altro giudice (con la previsione dell’immediata applicazione della nuova normativa ai processi in corso al momento della sua entrata in vigore).
[20] Legge 15 dicembre 2004, n. 308, recante «Delega al governo per il riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione», che tra l’altro si applicherebbe anche al caso della nota villa “La Certosa” del Presidente del Consiglio Berlusconi, sulla quale peraltro è stato anche apposto il segreto di Stato - con decreto del Ministro dell’Interno, 6 maggio 2004 – per impedire alla Procura della Repubblica, che ha sollevato in merito conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato di fronte alla Corte costituzionale - l’accesso ai luoghi per svolgere le doverose indagini a seguito di notizia di reato (sul conflitto è ora intervenuta la Corte costituzionale con ordinanza n. 404/2005, dichiarandolo inammissibile – «essendo venuta meno la materia del contendere» - a seguito dell’effettuazione dell’ispezione).
[21] Legge 24 febbraio 2004, n. 43: «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 24 dicembre 2003, n. 352, recante disposizioni urgenti concernenti modalità di definitiva cessazione del regime transitorio della legge 31 luglio 1997, n. 249» (c.d. decreto salva Retequattro) e Legge 3 maggio 2004, n. 112 (c.d. Legge Gasparri): «Norme di principio in materia di assetto del sistema radiotelevisivo e della RAI-Radiotelevisione italiana Spa, nonché delega al Governo per l’emanazione del testo unico della radiotelevisione».
[22] Si veda, in particolare, la sentenza n. 466 del 2002, proprio in riferimento alla considerazione che l’introduzione del sistema trasmissivo in digitale terrestre, sulla quale si basava il disegno di legge, e si basa la legge poi definitivamente approvata, non avrebbe potuto determinare di per sè alcun effetto significativo sull’assetto duopolistico delle trasmissioni in analogico terrestre. Cfr. A. Pace, Il discutibile avvio del «digitale terrestre» tra la sent. n. 466 del 2002 della Corte costituzionale e il rinvio ex art. 74 Cost. del Presidente della Repubblica, in Giur. Cost., 2004, pp. 1369 ss.
[23] Si veda soprattutto il messaggio rivolto alle Camere in data 23 luglio 2002, in Giur. Cost., 2002, pp. 2333 ss. e il successivo rinvio della legge alle Camere il 15 dicembre 2003.
[24] Si veda l’audizione del 12 dicembre 2002 davanti alle Commissioni riunite VII e IX della Camera dei deputati, e successivamente quelle del 10 settembre 2003, dell’8 gennaio 2004, del 5 febbraio 2004 ancora alla Camera, e del 20 gennaio 2004 al Senato, dinanzi alla Commissione VIII.
[25] Si veda la segnalazione del 19 dicembre 2002 ai Presidenti delle Camere, al Presidente del Consiglio e al Ministro delle Comunicazioni ex art. 22 legge n. 287 del 1990, e successivamente le audizioni del 10 settembre 2003 e dell’8 gennaio 2004. Una sintesi del contenuto delle audizioni è riportata in A. Pace, Legge Gasparri e Corte costituzionale, in Rassegna Parlamentare, 2004, n. 4, pp. 849 ss.
Con l’entrata in vigore della legge, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni era stata incaricata dall’art. 25 della legge stessa di presentare una relazione, entro il 30 aprile 2004, avente a oggetto il grado di sviluppo del pluralismo seguito all’introduzione del digitale terrestre, e dunque avente a oggetto l’esame della complessiva offerta dei programmi televisivi digitali terrestri, delle tendenze in atto nel mercato, della quota di popolazione coperta dalle nuove reti, della presenza sul mercato nazionale di decoder a prezzi accessibili, e dell’effettiva offerta al pubblico su tali reti anche di programmi diversi da quelli diffusi dalle reti analogiche: dalla risposta a tali quesiti si sarebbe potuto verificare il grado di effettivo pluralismo garantito dal sistema imperniato sul potenziale sviluppo del digitale terrestre delineato dalla nuova disciplina. L’Autorità non poteva che rispondere positivamente a tali quesiti, che miravano all’accertamento di una realtà solo potenziale del sistema digitale, ma non corrispondente alla sua diffusione effettiva nel Paese (sul punto v., in particolare, A. Pace, Legge Gasparri e Corte costituzionale, cit., pp. 870-872; O. Grandinetti, Il «nodo» televisivo e le «magnifiche sorti e progressive» del digitale terrestre, in Gior. Dir. Amm., 2004, n. 6, p. 667).
[26] Tra l’altro si segnala che lo stesso Presidente della Repubblica, nel messaggio con il quale ha rinviato alle Camere il disegno di legge (v. oltre nel testo), ha ammonito il Parlamento anche sotto il profilo della tecnica legislativa impiegata: «Con l’occasione ritengo opportuno rilevare quanto l’analisi del testo sia resa difficile dal fatto che le disposizioni in esso contenute sono condensate in due soli articoli, il secondo dei quali consta di 49 commi ed occupa 38 delle 40 pagine di cui si compone il messaggio legilastivo. A tale proposito, ritengo che questa possa essere la sede propria per richiamare l’attenzione del Parlamento su un modo di legiferare – invalso da tempo – che non appare coerente con la ratio delle norme costituzionali che disciplinano il procedimento legislativo e, segnatamente, con l’art. 72 della Costituzione, secondo cui ogni legge deve essere approvata “articolo per articolo e con votazione finale”» (Messaggio del Presidente della Repubblica alle Camere sull’Ordinamento Giudiziario, 16 dicembre 2004).
[27] Su cui v., per esempio, S. P. Panunzio (a cura di), I costituzionalisti e le riforme. Una discussione sul progetto della Bicamerale per le riforme costituzionali, Milano, 1998.
[28] Sul punto si rinvia a M. Dogliani, La legislazione costituzionale, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 2001, pp. 1028-1029.
[29] …del vero proporzionalismo, non di quello spacciato come tale nella nuova legge elettorale n. 270 del 2005 (su cui v. G. Zagrebelsky, Una riforma del voto irrazionale e incostituzionale, in La Repubblica del 25 ottobre 2005).
[30] V. paragrafo 4.
[31] A tal proposito si è parlato di un vero e proprio «mercanteggiamento» fra le forze della coalizione di maggioranza: v. A. Manzella, Il baratto delle istituzioni, in Repubblica, 26 marzo 2004, p. 1, ricordato da A. Pace, Legge Gasparri, cit., p. 865.