BASTA CON LE FALSITA''
SULL'ARTICOLO 18
Leggo sul sito de La Repubblica di ieri, a firma Carlo Clericetti,
un interessante articolo sull’art. 18.
Non è frequente che in Italia un giornalista argomenti per
dati e per fatti, e questa è una lodevole eccezione, così ne cito i passaggi
più illuminanti.
La Repubblica 20 dicembre 2012
L'ANALISI
L'articolo
18 tra fatti e propaganda
di CARLO CLERICETTI
(…) Chi dice che "in Italia non si può licenziare"
mente sapendo di mentire. L'articolo 18 vieta esclusivamente i licenziamenti
individuali, cioè di quella particolare persona, "senza giusta causa o
giustificato motivo". (…) Nei ruggenti anni '70 i magistrati tendevano a
dar quasi sempre ragione al lavoratore, anche contro l'evidenza dei fatti
(colpa comunque non della norma in sé, ma di come era applicata). Ma l'aria è
cambiata da un pezzo, tanto nel paese che tra i magistrati, e oggi l'esito di
queste cause non è affatto scontato. Quindi, licenziare una persona si può, se
ci sono giusta causa o giustificato motivo.
Lo Statuto dei lavoratori si applica soltanto nelle aziende che abbiano più di
15 dipendenti, quindi riguarda circa la metà dei lavoratori dipendenti. E'
stato affermato più volte, in passato, che questo costituisce un freno alla
crescita dimensionale delle imprese, che
è uno dei problemi della nostra economia. E' semplicemente falso: se così
fosse, si dovrebbe riscontrare una discontinuità nel numero delle aziende per
classe dimensionale, con un addensamento appena sotto i 15 dipendenti (quelle
che "non crescono" per non ricadere nell'applicazione dello Statuto).
Invece nessun dato conforta questa affermazione. (Infatti il 95% delle imprese italiane si colloca sotto i dieci, non i quindici, dipendenti, aggiungo io.) Quanto ai licenziamenti per
motivi economici - cioè perché l'azienda è in difficoltà
- si possono fare eccome, come tutti purtroppo hanno potuto constatare
specialmente da quando è scoppiata questa ultima crisi.
(…) nessuno ha mai dimostrato perché mai la possibilità del licenziamento
individuale andrebbe a favore di chi il lavoro non ce l'ha o subisce la piaga
del precariato. Nessuno ha mai spiegato perché mai sarebbe questa la via per
far aumentare i posti di lavoro.
L'argomento oggi più utilizzato per sostenere l'abolizione è quello del
"dualismo" del mercato del lavoro, diviso tra coloro che sarebbero
"iperprotetti" e coloro invece che sono privi di tutte o quasi le
protezioni. In quest'ultima condizione si trova la maggioranza dei giovani, il
che permette di sostenere un'altra tesi insensata, e cioè che le garanzie
conquistate dai padri vanno a scapito dei figli.
Si tratta, appunto, di nient'altro che pessima propaganda. A prescindere dal
fatto che, come si è ricordato, circa la metà dei dipendenti non è coperta
dallo Statuto dei lavoratori (e certo non sono tutti giovani), c'è un motivo
molto semplice per la prevalenza tra i giovani delle forme di contratto
precarie: la
"Legge Treu", ossia il primo pacchetto di norme che
ha introdotto varie tipologie di contratti diverse da quello fino ad allora
standard, ossia il contratto a tempo indeterminato, è relativamente recente,
del 1997. Le tipologie sono state ulteriormente aumentate dalla legge 30 del
2003 (quella impropriamente definita "Legge Biagi": altro colpo
propagandistico). Da allora sono state utilizzate prevalentemente queste forme
contrattuali, ed è ovvio che vi siano incappati coloro che entravano sul
mercato del lavoro, appunto i giovani.
Ma perché questi nuovi contratti (che sono un numero abnorme: ben 46, come
ricorda la Cgil) sono così tanto preferiti al vecchio? Il primo e più
importante motivo è che costano molto meno. In molti casi non si ha diritto a
ferie, e nemmeno alla malattia. Il carico contributivo, che per i contratti a
tempo indeterminato è all'aliquota del 33%, per questi contratti all'inizio era
addirittura al 10, e poi negli anni è stata progressivamente aumentata ed è
arrivata (dal 2010) al 26,72%, comunque ancora meno di quella standard.
Ovviamente, essendo tutti contratti a termine, consentono la massima
flessibilità nell'uso della forza lavoro senza alcun problema né normativo né
economico.
Questi "contratti senza diritti" hanno favorito o no un boom
dell'occupazione? (…) Tra il '97 e il 2008 (inizio della crisi e massimo
storico dell'occupazione) gli occupati sono cresciuti di 3,225 milioni.
Ricordiamo che gli "occupati", secondo la definizione Istat
(dalle cui serie storiche sono stati estratti questi dati), sono coloro che
hanno svolto almeno un'ora di lavoro retribuito nella settimana della
rilevazione. Prendiamo un altro periodo di 11 anni, cominciando dal 1970, anno
di entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori: tra il '70 e l'81 l'aumento è stato di 1,425
milioni, meno della metà. Naturalmente stiamo valutando questa variazione alla
luce di una sola variabile, quella dei cambiamenti contrattuali (e peraltro
solo i più rilevanti) senza considerare tutti gli altri aspetti della
congiuntura che possono aver pesato. Ma insomma, se si afferma che il problema
più serio è l'articolo 18, almeno per avere un'idea è legittimo farlo.
Confrontiamo ora un altro dato, le unità di lavoro. In questa definizione le
posizioni lavorative a tempo parziale, principali o secondarie, sono aggregate
in modo da formare posizioni a tempo pieno. Quindi si conta, in questo caso,
quanti posti di lavoro a tempo pieno ci sono. Dal '97 al 2008 le unità di
lavoro sono aumentate di 2 milioni e 268.000. Ma la "tara" di questa
cifra è costituita innanzitutto dalla grande ondata di regolarizzazione degli
immigrati (circa 700.000); e poi si può supporre che sia stata in questo modo
regolarizzata una qualche quantità di lavori che altrimenti sarebbero rimasti
in nero: effetto non disprezzabile ma certo non una svolta epocale. Vediamo ora
cosa è successo tra il '70 e l'81. Le unità di lavoro sono aumentate di 2
milioni e 110.000: quasi la stessa quantità, e senza regolarizzazioni di
immigrati, nonostante l'entrata in vigore del "terribile" articolo
18.
Che cosa se ne può concludere? Che i 46 nuovi tipi di contratti
"precari" non hanno generato una creazione di posti di lavoro (quelli
li crea la crescita, non le regole contrattuali), ma hanno solo sparpagliato su
più persone pezzi di lavoro peggio retribuito ed assistito.
Ma almeno, questo grande aumento della flessibilità nell'uso del lavoro è andato
a vantaggio della competitività? Anche in questo caso la risposta è negativa,
come tutti sanno. Peraltro, è anche noto che la produttività delle imprese è
direttamente correlata alla loro dimensione, ossia sono le più grandi ad essere
più produttive. Le più grandi: ossia quelle in cui si applica lo Statuto dei
lavoratori con il suo bravo articolo 18. Il che dovrebbe far venire per lo meno
qualche dubbio sul fatto che l'uso del fattore lavoro sia l'elemento
determinante rispetto a produttività e competitività.
E dunque: è giustissimo proporsi di eliminare il dualismo del mercato del
lavoro, ma non è stato finora avanzato un solo motivo valido a sostegno del
fatto che ciò debba avvenire riducendo i diritti di quella parte che li ha
ottenuti con un lungo e travagliato processo storico. L'unico motivo a cui si
può pensare è - non a caso - non detto. Che cioè la
libertà di licenziamento possa servire per liberarsi progressivamente dei
lavoratori più anziani (quelli stessi a cui si è appena elevata l'età di
pensionamento), che hanno il difetto di aver maturato retribuzioni mediamente
più elevate, assumendo al loro posto i giovani "a basso costo". Se è
così si capirebbe che cosa voglia effettivamente dire che "la protezione
dei padri toglie il lavoro ai figli". Ma certo l'impatto psicologico è un
po' diverso.
C'è comunque in tutto questo un altro fattore davvero singolare. Non è mai
stata la Confindustria - tranne ai tempi del berlusconiano
D'Amato - a guidare la crociata contro l'articolo 18. Questo è un
tema caro alla cultura di destra, con l'appoggio di alcune personalità che, pur
collocandosi nello schieramento di centro-sinistra, di quella cultura hanno
evidentemente subito l'egemonia culturale. Anche questo dovrebbe far sorgere
qualche dubbio sulla rilevanza per l'economia dell'articolo 18. Si spera che il
governo dei tecnici rifletta bene prima di impegnarsi in questa battaglia.
Condivido al 100%. Per tutti questi motivi, e alla luce delle proposte di P.Ichino, tengo d'occhio il governo e il Parlamento: se tutto si riduce al tentativo di abolire l'articolo 18, proprio non ci siamo. Se invece lo si vuole riformare, all'interno di un complessivo riassetto normativo della materia, è doveroso discuterne senza pregiudizi a sinistra. Ma nemmeno a destra, eh.