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sabato 31 dicembre 2011

E diciamoci la verità

"GIORGIO, AIUTACI A 
TOGLIERLO DI TORNO"


Adesso, ovviamente, smentiscono: prima il Quirinale, poi il governo tedesco negano recisamente ciò che ha scritto il Wall Street Journal. 
Ma, sia detto tra noi, io invece credo che sia andata proprio come sostiene il quotidiano.
Perché a me sembra assai verosimile che la Cancelliera si sia appellata, sull'orlo della disperazione, al nostro Capo dello Stato.

Del resto, mi sembra probabile che, sia pure con tutte le cautele, i riguardi istituzionali del caso e nei limiti consentiti dall'etichetta diplomatica, la Merkel, Sarkozy e magari anche i Muppets, insomma i potenti della Terra, dopo aver constatato esterrefatti che in Italia non si poteva destituire un incapace, maniaco megalomane, pluriprocessato, che rimaneva attaccato alla poltrona con i denti (sì, deve averli anche là sotto) e soprattutto comperandosi i parlamentari, si siano appellai a Napolitano per una sorta di exit strategy.

Ma credo anche che Napolitano, garbatamente, abbia loro risposto picche, nel senso che deve averli disillusi: "la Costituzione non mi assegna alcun potere di destituzione, né diretta né indiretta", deve aver loro risposto.
"Allora almeno dacci Monti, per il dopo. Noi pensiamo a dargli l'ultima spallata. Come? Ridendogli in faccia davanti a tutta la stampa internazionale."

Il grande buffone seppellito da una risatina.
Una fine politica degna di lui.


PS: scherzo, eh? Ma fino a un certo punto. Buon 2012.

venerdì 30 dicembre 2011

Pirlolalìa


E' ORA  DI  FINIRLA

Bossi insulta Napolitano: "Terùn" "Ci siamo rotti, la Padania ci sarà"

D'accordo, non sorprende più che questa specie di balilla verdevestito si rivolga ai suoi delirando di secessioni. Specie ora, che null'altro gli resta da dire, dopo aver governato in modo truffaldino e demenziale per nove degli ultimi undici anni, appoggiando tutte le nequizie del suo capriccioso padroncino di Arcore.

Ma a tutto c'è un limite, e io - non so voi - ne ho davvero le tasche piene.
Sono stufo di non sentirmi a casa mia - l'Italia - a Milano perché c'è una banda di fessacchiotti con le corna in testa, la camicia verde e la libreria piena di polenta taragna che insistono a dire che la Padania esiste.

Sono stufo di vedere cartelli stradali con scritto Varès anziché Varese, di leggere "Padania libera" sui cavalcavia e sui muri della mia terra.
Sono stufo di dover specificare che non sono leghista ogni volta che mi scappa una frase in dieletto - e me  càpita de spess.

Sono stufo di sentire stronzate come questa: "Il presidente della Repubblica - ha detto il Senatur dal palco - è venuto a riempirci di tricolori, sapendo che non piacciono alla gente del nord", o questa, con riferimento alle guerre per l'unità nazionale "tutti i giovani morti stavolta sparerebbero dall'altra parte".
O ancora, e soprattutto, questa "Noi dobbiamo andare a Milano a confermare che con le buone o le meno buone che Padania sarà: adesso ci siamo rotti le balle".
Eh no, bossino sciocchino, sono io che mi sono rotto le balle: di te e dei tuoi borghezi.

Con le buone o con le meno buone? Che fai,  verdeoliva dei miei stivali: minacci? Ma lo sai o non lo sai che al nord, se va bene, hai il 20% dei consensi, che nemmeno la lega è maggioranza relativa, e che nemmeno tra quel 20% sono tanti quelli che vogliono la tua indipendenza al gorgonzola?

Ma quando lo faremo smettere di sparare vaccate? 

Retaggi di un'onda nera calante

AVEVANO MESSO UN FASCISTA A RAPPRESENTARE L'ITALIA.
PROFESSOR MONTI, LO RICHIAMI.



Leggo con orrore e sdegno, sul sito di Libertà e Giustizia, quanto segue:

Al Ministro degli Esteri: un simpatizzante del fascismo non può rappresentare l’Italia anti-fascista

30 dicembre 2011 - 3 Commenti »
Massimo Marnetto
Il Tricolore italiano
Ministro degli Affari Esteri, Giulio Terzi di Sant’Agata,
le scrivo per manifestare il grave imbarazzo e la profonda indignazione che provoca in molti di noi cittadini amanti della Costituzione, sapere che sia tollerato il comportamento di Mario Vattani, console italiano in Giappone, di esplicita apologia del fascismo, quando nel tempo libero canta canzoni di apprezzamento della Repubblica di Salò e spera di “alzare presto la bandiera nera”.
Qui non si tratta di “una questione personale” come ha tentato di minimizzare con inspiegabile leggerezza il portavoce della Farnesina, Maurizio Massari.
Infatti, Mario Vattani – in arte Katanga quando canta inni all’eversione – si pone contro il dettato dell’art. 54 della Costituzione, che vincola tutti i cittadini al  dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione.
Inoltre, come titolare di delicate funzioni pubbliche di rappresentanza diplomatica, il Vattani-Katanga ha “il dovere di adempierle con disciplina ed onore”, come prescrive sempre l’art.54 della Carta.
Per questi gravi e comprovati motivi, le chiediamo di provvedere affinché Mario Vattani sia rimosso al più presto dalla sua funzione, come segno di intransigente rispetto dei valori costituzionali, nati dal superamento della tragedia fascista.
Con vigilanza democratica.
Sono poi andato a verificare: questo lurido individuo rappresenta l'Italia a Tokio dal luglio scorso. Scusate, non mi ricordo bene: da chi era guidato allora il Ministero degli Esteri? E chi era Presidente del COnsiglio?

sabato 24 dicembre 2011

Auguri



A tutti coloro che si ostinano a credere all'Italia
A chi dovrebbe essere in Italia un ospite, invece è un perseguitato
A chiunque ancora creda nell'Europeismo
A te, che aborrisci il neoliberismo e credi nel Welfare
A chi ritenendosi un patriota aborrisce la Lega
A chi crede nella cultura e quindi aborrisce la Lega
A chi crede nella solidarietà e quindi aborrisce la Lega
A chi teme il razzismo e quindi aborrisce la Lega 
A chi fa il tifo perché Monti ce la faccia
A chi sa che l'Euro è la nostra speranza
A chi ritiene che il federalismo sia una bufala
A chi pensa che Berlusconi abbia rappresentato il peggior disastro che poteva accadere
A chi pensa che non ci possa essere giustificazione per gli evasori
A chi pensa che non ci sono femmine e maschi, ma persone

UN SERENO NATALE E UN 2012 
DI SPERANZA

A tutti gli altri, auguro di cambiare idea

venerdì 23 dicembre 2011

Lessico del degrado


COSA VUOL DIRE "SFIGATO"



Sembra un piccolo dettaglio, ma a me non pare piccolo.
Sento sempre più spesso, in bocca agli adolescenti, l’espressione “sfigato”. Niente di strano in sé, anche noi alla loro età usavamo questo vocabolo un po’ scurrile, sia pur con minore frequenza.
Il fatto è che oggi i ragazzi ne fanno un uso improprio.
Il termine deriva dal volgare “sfiga”, che sta per “sfortuna”: quindi “sfigato” significa “sfortunato", e in tale accezione lo si è sempre inteso almeno sino ad alcuni anni fa, infatti lo si diceva non di rado in tono compassionevole nei confronti di chi veniva definito tale.

Oggi no: il più delle volte viene pronunciato con disprezzo., e se si sta attenti al contesto delle frasi in cui il termine viene inserito, ci si accorge che nel gergo dei ragazzi d’oggi non significa più “sfortunato”, bensì “perdente”.
A parte che l'essere perdenti, in sé, non dovrebbe costituire ragione di disprezzo, visto che a tutti può capitare di perdere, anche senza demerito, qualche altra considerazione s'impone.

A me la cosa fa semplicemente rabbrividire, perché sottintende tutto un sistema di (dis)valori imperante. Sei povero? Allora sei sfigato, quindi perdente, non meriti la nostra compassione perché in qualche modo il tuo destino te lo sei meritato. Lo stesso vale per chi è grasso, maldestro, timido, disoccupato, eccetera.


La prima conseguenza è che la società non riconosce più il dovere di sostenere i bisognosi: la situazione di bisogno si tramuta in un verdetto senza appello. Il vecchio adagio "poveri ma onesti" non costituisce più motivo di orgoglio, ma di emarginazione.

Corollario: non è “sfigato” chi ha successo (non importa come).
Ci sarà da lavorare con questi ragazzi, dopo la fine del berlusconismo e l’auspicabile tramonto del neoliberismo e della telecrazia.

mercoledì 21 dicembre 2011

Sempre sull'art. 18


BASTA CON LE FALSITA''
SULL'ARTICOLO 18




Leggo sul sito de La Repubblica di ieri, a firma Carlo Clericetti, un interessante articolo sull’art. 18.
Non è frequente che in Italia un giornalista argomenti per dati e per fatti, e questa è una lodevole eccezione, così ne cito i passaggi più illuminanti.


La Repubblica 20 dicembre 2012

L'ANALISI

L'articolo 18 tra fatti e propaganda
di CARLO CLERICETTI

(…) Chi dice che "in Italia non si può licenziare" mente sapendo di mentire. L'articolo 18 vieta esclusivamente i licenziamenti individuali, cioè di quella particolare persona, "senza giusta causa o giustificato motivo". (…) Nei ruggenti anni '70 i magistrati tendevano a dar quasi sempre ragione al lavoratore, anche contro l'evidenza dei fatti (colpa comunque non della norma in sé, ma di come era applicata). Ma l'aria è cambiata da un pezzo, tanto nel paese che tra i magistrati, e oggi l'esito di queste cause non è affatto scontato. Quindi, licenziare una persona si può, se ci sono giusta causa o giustificato motivo.

Lo Statuto dei lavoratori si applica soltanto nelle aziende che abbiano più di 15 dipendenti, quindi riguarda circa la metà dei lavoratori dipendenti. E' stato affermato più volte, in passato, che questo costituisce un freno alla crescita dimensionale delle imprese, che è uno dei problemi della nostra economia. E' semplicemente falso: se così fosse, si dovrebbe riscontrare una discontinuità nel numero delle aziende per classe dimensionale, con un addensamento appena sotto i 15 dipendenti (quelle che "non crescono" per non ricadere nell'applicazione dello Statuto). Invece nessun dato conforta questa affermazione. (Infatti il 95% delle imprese italiane si colloca sotto i dieci, non i quindici, dipendenti, aggiungo io.) Quanto ai licenziamenti per motivi economici  -  cioè perché l'azienda è in difficoltà  -  si possono fare eccome, come tutti purtroppo hanno potuto constatare specialmente da quando è scoppiata questa ultima crisi.

(…) nessuno ha mai dimostrato perché mai la possibilità del licenziamento individuale andrebbe a favore di chi il lavoro non ce l'ha o subisce la piaga del precariato. Nessuno ha mai spiegato perché mai sarebbe questa la via per far aumentare i posti di lavoro. 

L'argomento oggi più utilizzato per sostenere l'abolizione è quello del "dualismo" del mercato del lavoro, diviso tra coloro che sarebbero "iperprotetti" e coloro invece che sono privi di tutte o quasi le protezioni. In quest'ultima condizione si trova la maggioranza dei giovani, il che permette di sostenere un'altra tesi insensata, e cioè che le garanzie conquistate dai padri vanno a scapito dei figli.

Si tratta, appunto, di nient'altro che pessima propaganda. A prescindere dal fatto che, come si è ricordato, circa la metà dei dipendenti non è coperta dallo Statuto dei lavoratori (e certo non sono tutti giovani), c'è un motivo molto semplice per la prevalenza tra i giovani delle forme di contratto precarie: la "Legge Treu", ossia il primo pacchetto di norme che ha introdotto varie tipologie di contratti diverse da quello fino ad allora standard, ossia il contratto a tempo indeterminato, è relativamente recente, del 1997. Le tipologie sono state ulteriormente aumentate dalla legge 30 del 2003 (quella impropriamente definita "Legge Biagi": altro colpo propagandistico). Da allora sono state utilizzate prevalentemente queste forme contrattuali, ed è ovvio che vi siano incappati coloro che entravano sul mercato del lavoro, appunto i giovani.

Ma perché questi nuovi contratti (che sono un numero abnorme: ben 46, come ricorda la Cgil) sono così tanto preferiti al vecchio? Il primo e più importante motivo è che costano molto meno. In molti casi non si ha diritto a ferie, e nemmeno alla malattia. Il carico contributivo, che per i contratti a tempo indeterminato è all'aliquota del 33%, per questi contratti all'inizio era addirittura al 10, e poi negli anni è stata progressivamente aumentata ed è arrivata (dal 2010) al 26,72%, comunque ancora meno di quella standard. Ovviamente, essendo tutti contratti a termine, consentono la massima flessibilità nell'uso della forza lavoro senza alcun problema né normativo né economico.

Questi "contratti senza diritti" hanno favorito o no un boom dell'occupazione? (…) Tra il '97 e il 2008 (inizio della crisi e massimo storico dell'occupazione) gli occupati sono cresciuti di 3,225 milioni. Ricordiamo che gli "occupati", secondo la definizione Istat (dalle cui serie storiche sono stati estratti questi dati), sono coloro che hanno svolto almeno un'ora di lavoro retribuito nella settimana della rilevazione. Prendiamo un altro periodo di 11 anni, cominciando dal 1970, anno di entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori: tra il '70 e l'81 l'aumento è stato di 1,425 milioni, meno della metà. Naturalmente stiamo valutando questa variazione alla luce di una sola variabile, quella dei cambiamenti contrattuali (e peraltro solo i più rilevanti) senza considerare tutti gli altri aspetti della congiuntura che possono aver pesato. Ma insomma, se si afferma che il problema più serio è l'articolo 18, almeno per avere un'idea è legittimo farlo.

Confrontiamo ora un altro dato, le unità di lavoro. In questa definizione le posizioni lavorative a tempo parziale, principali o secondarie, sono aggregate in modo da formare posizioni a tempo pieno. Quindi si conta, in questo caso, quanti posti di lavoro a tempo pieno ci sono. Dal '97 al 2008 le unità di lavoro sono aumentate di 2 milioni e 268.000. Ma la "tara" di questa cifra è costituita innanzitutto dalla grande ondata di regolarizzazione degli immigrati (circa 700.000); e poi si può supporre che sia stata in questo modo regolarizzata una qualche quantità di lavori che altrimenti sarebbero rimasti in nero: effetto non disprezzabile ma certo non una svolta epocale. Vediamo ora cosa è successo tra il '70 e l'81. Le unità di lavoro sono aumentate di 2 milioni e 110.000: quasi la stessa quantità, e senza regolarizzazioni di immigrati, nonostante l'entrata in vigore del "terribile" articolo 18. 

Che cosa se ne può concludere? Che  i 46 nuovi tipi di contratti "precari" non hanno generato una creazione di posti di lavoro (quelli li crea la crescita, non le regole contrattuali), ma hanno solo sparpagliato su più persone pezzi di lavoro peggio retribuito ed assistito.

Ma almeno, questo grande aumento della flessibilità nell'uso del lavoro è andato a vantaggio della competitività? Anche in questo caso la risposta è negativa, come tutti sanno. Peraltro, è anche noto che la produttività delle imprese è direttamente correlata alla loro dimensione, ossia sono le più grandi ad essere più produttive. Le più grandi: ossia quelle in cui si applica lo Statuto dei lavoratori con il suo bravo articolo 18. Il che dovrebbe far venire per lo meno qualche dubbio sul fatto che l'uso del fattore lavoro sia l'elemento determinante rispetto a produttività e competitività.

E dunque: è giustissimo proporsi di eliminare il dualismo del mercato del lavoro, ma non è stato finora avanzato un solo motivo valido a sostegno del fatto che ciò debba avvenire riducendo i diritti di quella parte che li ha ottenuti con un lungo e travagliato processo storico. L'unico motivo a cui si può pensare è  -  non a caso  -  non detto. Che cioè la libertà di licenziamento possa servire per liberarsi progressivamente dei lavoratori più anziani (quelli stessi a cui si è appena elevata l'età di pensionamento), che hanno il difetto di aver maturato retribuzioni mediamente più elevate, assumendo al loro posto i giovani "a basso costo". Se è così si capirebbe che cosa voglia effettivamente dire che "la protezione dei padri toglie il lavoro ai figli". Ma certo l'impatto psicologico è un po' diverso.

C'è comunque in tutto questo un altro fattore davvero singolare. Non è mai stata la Confindustria  -  tranne ai tempi del berlusconiano D'Amato  -  a guidare la crociata contro l'articolo 18. Questo è un tema caro alla cultura di destra, con l'appoggio di alcune personalità che, pur collocandosi nello schieramento di centro-sinistra, di quella cultura hanno evidentemente subito l'egemonia culturale. Anche questo dovrebbe far sorgere qualche dubbio sulla rilevanza per l'economia dell'articolo 18. Si spera che il governo dei tecnici rifletta bene prima di impegnarsi in questa battaglia.

Condivido al 100%. Per tutti questi motivi, e alla luce delle proposte di P.Ichino, tengo d'occhio il governo e il Parlamento: se tutto si riduce al tentativo di abolire l'articolo 18, proprio non ci siamo. Se invece lo si vuole riformare, all'interno di un complessivo riassetto normativo della materia, è doveroso discuterne senza pregiudizi a sinistra. Ma nemmeno a destra, eh.

martedì 20 dicembre 2011

Ancora sull'articolo 18


QUANDO LICENZIARE E' LECITO?
Le proposte di Pietro Ichino



Per ragioni professionali, ne mastico, quindi vorrei fare un po' di chiarezza. 
La legge 300/1970 (il famoso “Statuto dei Lavoratori”) prevede, all’articolo 18, che il licenziamento di un lavoratore sia legittimo in presenza di “giusta causa” o “giustificato motivo”.
Cosa significa?
E’ “giusta causa” se il comportamento del lavoratore è stato tale da incrinare irrimediabilmente la fiducia che l’azienda riponeva in lui. In proposito esiste una giurisprudenza molto articolata e ormai consolidata, che fa ricomprendere tra questi comportamenti la presenza di gravi violazioni del contratto di lavoro o degli obblighi previsti dal Codice Civile (come nel caso dell’insubordinazione). Insomma, è legittimo che l’azienda ti licenzi se può dimostrare che proprio l’hai fatta grossa (per esempio hai messo le mani addosso a un collega, un cliente o un superiore, o ti sei rifiutato di fare il tuo lavoro).

Il caso del “giustificato motivo” è differente, e si divide in “giustificato motivo soggettivo” (cioè che dipende ancora dal comportamento del lavoratore) od “oggettivo” (determinato cioè da situazioni di fatto che non hanno a che vedere con il suo comportamento).
Il giustificato motivo soggettivo si ha quando, pur non in presenza delle gravi violazioni cui abbiamo fatto cenno riguardo alla giusta causa, sussistono comunque rilevanti inadempimenti, come nel caso dello scarso rendimento: vale a dire che devi esserti comportato “abbastanza male”.
Quanto “abbastanza”? Anche questo aspetto è minuziosamente descritto, ma nel contratto di lavoro e non nell’art. 18 – ad esempio è stabilito quante volte il lavoratore deve aver reiterato la violazione dei propri obblighi perché la sanzione estrema del licenziamento sia legittima.

Il giustificato motivo oggettivo invece si configura nel caso in cui, ad esempio per una situazione di crisi, il datore di lavoro non abbia più lavoro da dare a quel lavoratore. In questa malaugurata eventualità, egli deve dimostrare che il lavoratore non può essere reimpiegato in altre mansioni equivalenti, e non può assumere nessun altro al suo posto per almeno sei mesi (almeno questa era la giurisprudenza sino a pochi anni fa, a quanto ne so, ma non può essere cambiata di molto).

Le sanzioni previste per il datore di lavoro che abbia licenziato illegittimamente qualcuno sono il reintegro del lavoratore nel posto di lavoro (o un congruo risarcimento stabilito dal giudice), se l’azienda ha almeno 15 dipendenti, o il solo risarcimento se i dipendenti sono meno di 15.

Come si vede, non è vero che con l’attuale normativa non si possa licenziare. Ciò che rende difficile farlo è soprattutto il fatto che l’onere della prova sia a carico del datore di lavoro, il che ha consentito, specie negli anni dal ’70 al 2000 all’incirca, che i giudici del lavoro fossero non di rado eccessivamente garantisti verso il lavoratore.
Detto ciò, Ichino propone semplicemente di non prevedere il reintegro nel caso di giustificato motivo oggettivo, bensì un congruo risarcimento. Ma propone anche di estendere l’efficacia dell’articolo 18 a tutti i lavoratori, compresi i “parasubordinati” (cioè al popolo delle partite IVA, e ai Collaboratori a Progetto).

A voi sembra scandalosa come proposta?
A me no.
C’è una bella differenza tra ciò che Ichino propone e l’abolizione dell’articolo 18 pura e semplice.

lunedì 19 dicembre 2011

Articolo 18


COSA HA DAVVERO PROPOSTO

PIETRO ICHINO


Su Ichino, in questi anni, ne ho sentite tante. A destra, apprezzato con riserva. A sinistra, approvato con riserva. Il punto è l’articolo 18.
La mia opinione è che l’art. 18 sia un falso scopo, a destra, per finire di demolire le garanzie sindacali, e che non è vero che lasciando libertà totale di licenziamento si diminuirebbe la disoccupazione (le aziende assumono solo se hanno più lavoro che manodopera, questa è l’unica precondizione).
Sono andato a curiosare e ho scoperto che Ichino, economista di sinistra, ha un sito in cui espone abbastanza chiaramente le sue proposte: http://www.pietroichino.it
Ne riporto qui quelle che riguardano il lavoro.
Seguiranno commenti.

"Propongo di promuovere una grande intesa tra lavoratori e imprenditori, nella quale questi ultimi rinunciano al lavoro precario in cambio di un contratto di lavoro a tempo indeterminato reso più flessibile con l’applicazione di una tecnica di protezione della stabilità diversa da quella attuale per i licenziamenti dettati da motivo economico-organizzativo.
     La cosa può funzionare così:
- d’ora in poi tutti i nuovi rapporti di lavoro, esclusi soltanto quelli stagionali o puramente occasionali, si costituiscono con un contratto a tempo indeterminato, che si apre con un periodo di prova di sei mesi;
- la contribuzione previdenziale viene rideterminata in misura uguale per tutti i nuovi rapporti, sulla base della media ponderata della contribuzione attuale di subordinati e parasubordinati; una fiscalizzazione del contributo nel primo anno per i giovani, le donne e gli anziani determina la riduzione del costo al livello di un rapporto di lavoro a progetto attuale; la semplificazione degli adempimenti riduce drasticamente i costi di transazione;
- dopo il periodo di prova, si applica la protezione prevista dall’articolo 18 dello Statuto per il licenziamento disciplinare e contro il licenziamento discriminatorio, per rappresaglia, o comunque per motivo illecito;
- in caso di licenziamento per motivi economici od organizzativi, invece, il lavoratore riceve dall’impresa un congruo indennizzo che cresce con l’anzianità di servizio;
- viene inoltre attivata un’assicurazione complementare contro la disoccupazione, che porta il trattamento complessivo a un livello paragonabile a quelli scandinavi: durata pari al rapporto intercorso con limite massimo  di tre anni, con copertura iniziale del 90% dell’ultima retribuzione, decrescente nei due anni successivi fino al 70%), condizionata alla disponibilità effettiva del lavoratore per le attività mirate alla riqualificazione professionale e alla rioccupazione;
- l’assicurazione e i servizi collegati, affidati ad agenzie scelte dalle imprese o ad enti bilaterali costituiti di comune accordo con i sindacati, sono finanziati interamente a carico delle imprese stesse (con un contributo il cui costo medio è stimato intorno allo 0,5% del monte salari): più rapida è la ricollocazione del lavoratore licenziato, più basso è il costo del sostegno del reddito per l’impresa: donde un forte incentivo economico all’efficienza dei servizi di outplacement;
- il compito del giudice è limitato a controllare, su eventuale denuncia del lavoratore, che il licenziamento non sia in realtà dettato da motivi illeciti (per esempio: licenziamento squilibrato a danno di persone disabili, donne, lavoratori sindacalizzati, ecc.); il “filtro” dei licenziamenti per motivo economico è costituito invece essenzialmente dal suo costo per l’impresa."

sabato 17 dicembre 2011

La democrazia è più intelligente


PERCHE' DICO NO ALLA “LOGICA” 
POPULISTA DEL BRANCO




Stamattina, mentre aspettavo che il caffè salisse, Datimoglie e Adolefiglia si alzassero, e Datimicio mi faceva le cerimonie di saluto del mattino, sfogliavo il Venerdì di Repubblica. A pagina 76 un trafiletto ha attratto la mia attenzione.
Ho così scoperto che uno storico della medicina, Gilberto Corbellini, ha scritto un libro, “Scienza quindi democrazia”, in cui sostiene una tesi che mi intriga non poco.
Secondo lui, la scienza ci avrebbe resi, nei secoli, più intelligenti e democratici, più liberali e razionali. “Il metodo scientifico”, dice, “ci ha resi capaci di pensare in maniera controintuitiva, scoprendo così le leggi della natura”, educandoci a “mettere sotto controllo , mediante l’addestramento di certe aree del cervello, una serie di emozioni che ci impedirebbero di vivere in uno Stato di diritto, sotto il governo delle leggi, dal momento che la nostra predisposizione biologica è a vivere in un branco, e sotto una gerarchia basata sulla forza. (…) Le democrazie liberali e costituzionali hanno conosciuto la loro espansione nel XX secolo, quando nelle scuole è entrata l’’istruzione scientifica. Ed essa di deve l’effetto Flynn (dal nome dello psicologo James R.Flynn, che l’ha descritto), cioè l’aumento medio del quoziente di intelligenza di 3 punti al decennio, andato di pari passo  con l’estensione dell’idea di cittadinanza e partecipazione degli individui alle società democratiche.” 
Non a caso, osserva Corbellini, esiste tutto un filone di pensiero reazionario che teme la scienza e la considera “priva di uno statuto particolare e la compara all’arte o alla religione”, come fa “buona parte della Chiesa cattolica che la considera addirittura pericolosa.”

Ora, al di là dell’indubbio interesse socio-epistemologico del tema, la tesi mi attrae perché concorre a spiegare alcune mie convinzioni; tali convinzioni mi hanno spinto a scegliere il mio nickname, e per esse da anni combatto nel mio piccolo una battaglia che è per la civiltà, prima ancora che per l’Italia, ed è contro il semplicismo, prima ancora che contro Berlusconi e soci.
Una battaglia in cui cerco di separare le opinioni dai fatti e dai numeri, e nella quale cerco di non fare nessuna asserzione, se non suffragata da fatti e da dati.

La prima convinzione è che l’autoritarismo non può che nutrirsi di ignoranza – basti pensare a Berlusconi, e alla Gelmini e  alla Moratti come ministre dell’istruzione, senza contare i Bossi, i Borghezio, i Calderoli e simili.

La seconda è che il populismo, la xenofobia, il razzismo, si basano su assunti indimostrati e indimostrabili, ma proprio per questo difficilissimi da scardinare, che si rivolgono al modo di pensare intuitivo.  Un esempio di intuitività del pensiero è “le cose vanno male, deve essere colpa di qualcuno, colpa mia non è di sicuro, e nemmeno dei miei simili, quindi deve essere colpa di qualcuno di diverso”. La logica è sgangheratissima, ma efficace. Purtroppo. Questo modo di pensare si nutre di slogan, non di ragionamenti.

venerdì 16 dicembre 2011

Non cambiate canale


CIAO A TUTTI

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TORNO A ME STESSO PER UNA SETTIMANA.
RIVEDRETE IL MIO NICK DA DOMENICA 24.

Ricordi


UNA VETRINA DAL PASSATO

Era il Natale del ’76.
La mia famiglia colpita da improvviso crack finanziario, passava dalla ricchezza alla miseria e alla precarietà. Avevo diciassette anni, e ricordo ancora il groppo in gola che mi venne, soffermandomi davanti a una vetrina in Corso Buenos Ayres, dalla quale occhieggiavano enormi panettoni vestiti a festa: quelle stesse ghiottonerie che erano state in casa nostra il normale contorno alle feste sino all’anno precedente, mentre ora dovevamo risparmiare lira su lira per permetterci uno spumantino con la  torta fatta in casa.

Sono passati molti anni, e sono riuscito a ricostruire qualcosa con mia moglie, e se non la ricchezza abbiamo raggiunto una decorosa agiatezza.
Ho l’orgoglio di aver sempre pagato le tasse, sino all’ultima lira, con grave sgomento del mio commercialista il quale, osservando il fatturato di quest’anno, è sicuro che io abbia fatto del business in nero. E invece no, si tratta proprio di una crisi di fatturato in questo annus horribilis che finalmente sta per lasciarci, esausti.
Non solo gli affari vanno male, purtroppo.

La mia Patria che è un cumulo di rovine, la mia salute (ho problemi seri ai reni), quella di mia madre, e ora anche quella di… lasciamo andare.
Mi sorprendo a pensare che questo dovrebbe essere il secondo peggior Natale della mia vita, dopo quello del ’76.
Ed è vero, sono meravigliato di non essere totalmente bloccato dall’angoscia, dalle preoccupazioni.
Invece no, non mi preoccupo. Mi occupo, semmai.

Forse, invecchiando, si diventa più forti.

giovedì 15 dicembre 2011

Dopo la caduta (spero) del Grande Truffatore

COSA COMBATTERE ANCORA?




La domanda l'ho sentita porre in vari modi a parecchi oppositori del regime berlusconiano (uno su tutti, Ezio Mauro). Essa sottintende, e a volte esplicita, un quesito ulteriore, che più o meno suona così: "adesso che Berlusconi è sconfitto (non ancora dalle urne, ma sperabilmente dalla Storia), il tuo giornale, la tua attività di pensiero critico, serve ancora? Non è che la sua uscita di scena condanna al declino anche la tua testata, che per 17 anni è stata particolarmente "caratterizzata" in chiave antiberlusconiana?"

Il quesito mi è parso legittimo, ma abbastanza ozioso, sino a che non è stato posto a me da un vecchio amico qualche giorno fa.
Il solo fatto che la domanda mi è stata posta rende evidente che la risposta, se sembra ovvia a me, non sembra ovvia a molti altri, tra i quali forse anche i miei dodici visitatori.

Eccomi dunque a dirlo, apertis verbis: certo, c'è ancora molto da combattere. Bisogna partire dal presupposto che il berlusconismo come malattia non è stata la causa, ma la conseguenza di una mentalità (anche se ha poi contribuito a rafforzarla al punto da renderla a lungo dominante).
In questo senso mi sento di indicare alcuni bersagli contro i quali appuntare la mia critica più radicale. Pochi, ma a mio avviso assolutamente fondamentali.

a) Il razzismo, la xenofobia, il localismo incarnato dalla Lega fascistoide, becera e violenta, con tutto il suo corollario di vilipendio alla Patria, di aprioristica disobbedienza fiscale, di antieuropeismo e di insofferenza verso il concetto stesso di cultura. Il caso ha voluto che in un paio di giorni si siano verificati il pogrom di Torino (un episodio trucido, lugubre, degno del Ku Klux Klan) e l'azione del criminale nazifascista di Firenze (non etichettiamolo come pazzo, per favore: a furia di dire che i teppisti da stadio erano quattro deficienti, si è finito per lasciar dilagare il fenomeno...). E me lo chiedi, certo che c'è da combattere!

b) La mentalità neoliberista, che dietro a tutta una serie di falsi ideologici, teorie economiche strampalate, assiomi indimostrati e leggende metropolitane, ha "sdoganato" l'egoismo dei ricchi, diviso il sindacato e asservito la sinistra, legittimato l'evasione fiscale e la ridicolizzazione del ruolo sociale dell'impresa, il primato della finanza sull'economia, l'idolatria del manager rispetto al politico, la demonizzazione del welfare, la redistribuzione della ricchezza dal popolo alle caste, lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali, il potere smisurato di un fanatico incapace come Marchionne. Eccome se c'è da combattere!

c) Infine, ancora Lui: il guitto delinquenziale, l'erotomane monomaniaco, il riccastro parvenue, il superegolatra, il fiancheggiatore criminogeno, il Grande Truffatore di Arcore. Adesso è sulla difensiva, sembra sconfitto definitivamente e forse lo è. Ma attenzione, non crediate che si sia rassegnato. Anche perché è convinto, forse a ragione, che il suo declino politico segni l'inizio della sua fine anche sul piano giudiziario e imprenditoriale: gli unici due veri motivi per i quali era sceso in campo, quasi diciotto anni fa. Non so cosa stia tramando, ma nulla di buono di sicuro. Eccerto, che c'è ancora da combattere!

lunedì 12 dicembre 2011

Una selva di dimissioni


NON ILLUDETEVI
foto_selva
TANTO ME LE RESPINGONO

Porcherie


ECCO PERCHE'

belpietro

ECCO PERCHE'L'ELETTORE DI CENTROSINISTRA DEVE TURARSI IL NASO, ORA. PER POTER, DOPO AVER DISTRUTTO IL BERLUSCONISMO, MANDARE A CASA ANCHE CERTA "INTELLIGENTZIA"  (SIC!) DELLA NOSTRA PARTE.
 "Articolo di Marco Travaglio del 12/05/2007 per www.marcotravaglio.it
(...)Se in Italia non esistesse Berlusconi con la fairy band dei Previti e dei Dell’Utri, ce ne sarebbe a sufficienza per chiedere le dimissioni di Massimo D’Alema da vicepremier, di Piero Fassino da segretario dei Ds e di Nicola Latorre da vicecapogruppo dell’Ulivo al Senato. Quello che emerge dalle loro telefonate con Giovanni Consorte (e, nel caso di Latorre, anche con il preclaro “compagno” Stefano Ricucci) ha un solo nome: conflitto interessi, e dei più gravi. Naturalmente tutto il dibattito è falsato dalla presenza in Parlamento di Berlusconi e della fairy band, al cui confronto il gravissimo conflitto d’interessi Ds-Unipol-coop rosse impallidisce. Ma in un paese normale (espressione cara a D’Alema), nel quale dunque Berlusconi & C. fossero già stati sbattuti fuori dalla vita pubblica, i telefonisti rossi se ne dovrebbero andare su due piedi."

domenica 11 dicembre 2011

Quale governo ha aumentato di più il debito pubblico?

ECCO LE CIFRE
DI OSCAR GIANNINO




Da Wikipedia: "Oscar Giannino inizia l'attività politica nel Partito repubblicano (PRI), dove diventa segretario della federazione giovanile (1984-1987) e, in seguito, membro della Direzione nazionale e portavoce (1987-1994). Inizia la sua carriera giornalistica presso il quotidiano del partito, La Voce Repubblicana dove, nel 1988, diventa caporedattore.
Iscritto all'ordine dei giornalisti dal 15 aprile 1992, abbandona il PRI nel 1995. Successivamente lavora al mensile Liberal (organo dell'omonima fondazione creata da Ferdinando Adornato), e tre anni più tardi è vicedirettore della testata, che nel frattempo è diventata settimanale.
Dal 1999 al 2004 è responsabile della pagina economica del Foglio. Lascia il quotidiano e si trasferisce a Il Riformista come vice del direttoreAntonio Polito. Nel 2005 diventa vicedirettore di Finanza&Mercati e conduce il programma televisivo di approfondimento Batti e ribatti suRaiUno. Comincia anche una collaborazione con il quotidiano Libero, diretto da Vittorio Feltri, e il 3 maggio 2007 diventa direttore del suo allegato economico-finanziario LiberoMercato, che lascia nel febbraio 2009, soggetto a licenziamento disciplinare a causa di divergenze con l'editore[1][2].
Nel 2006 firma il manifesto del movimento Riformatori Liberali[3]. Dopo aver ripreso nel 2007 la tessera del PRI, diviene membro del Consiglio nazionale del partito e, dal 2011, anche della Direzione nazionale.
Nell'aprile 2009 apre Chicago-blog.it in collaborazione con l'Istituto Bruno Leoni, nel quale insieme con altri collaboratori e giornalisti esamina le principali questioni politico-economiche dell'attualità; inoltre da fine giugno 2009 conduce una trasmissione su Radio 24 (emittente radiofonica del Sole 24 Ore) dal titolo "Nove in punto, la versione di Oscar", in onda dal lunedì al venerdì alle 9:00[4].
Nel 2011 è presidente di uno dei comitati per il No ai due referendum sui servizi pubblici e sulla tariffa del servizio idrico del 12 e 13 giugno2011[5].
Attualmente è membro del comitato scientifico della Fondazione Italia USA, Senior Fellow dell'Istituto Bruno Leoni, editorialista perPanoramaIl MessaggeroIl MattinoIl GazzettinoRID, e co-direttore del mensile Capo Horn."