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domenica 17 dicembre 2006



Welby condannato a vivere ancora


Il giudice non autorizza a staccare la spina
Piergiorgio Welby ha il diritto di chiedere l’interruzione della respirazione assistita, ma si tratta di un diritto non tutelato dall’ordinamento giuridico, dipende dalla sensibilità del medico. E’ la posizione del giudice del tribunale di Roma Angela Salvio ed è un rifiuto senza mezzi termini del ricorso presentato quasi un mese fa dagli avvocati di Welby, malato di distrofia muscolare nella fase terminale che ha chiesto la sospensione della terapia e una morte senza sofferenze. Welby può impugnare la decisione. «Non ha ancora deciso, ci sono quindici giorni di tempo», spiega l’avvocato Vittorio Angiolini. Difficile prevedere quel che deciderà, ieri ad un amico che paragonava il giudice a Ponzio Pilato, rispondeva: «Ne è piena l’Italia». E’ Marco Cappato, segretario dell’associazione Luca Coscioni, a parlare del futuro: «Il prossimo passo è discutere e operare insieme a Piergiorgio e sua moglie Mina per trovare le modalità su tutti gli aspetti necessari a compiere la volontà di Piergiorgio». E la moglie del malato è d’accordo: spetta a lui decidere.
Il giudice lancia un richiamo chiaro al Parlamento, chiede «un’iniziativa politica e legislativa per colmare il vuoto normativo in materia». L’elenco di queste carenze è lungo. Il divieto di accanimento terapeutico «esiste, è un principio «solidamente basato su principi costituzionali di tutela della dignità della persona (art. 2 e 32)», ma «sul piano dell’attuazione pratica del corrispondente diritto del paziente ad esigere e a pretendere che sia cessata una determinata attività medica di mantenimento in vita, lascia il posto alla interpretazione soggettiva e alla discrezionalità e non è regolata dal diritto».
La sentenza del giudice è contenuta in un provvedimento di 11 pagine depositato ieri al Tribunale di Roma. Si parla del «principio di autodeterminazione e del consenso informato», uno dei pilastri su cui si basa la richiesta di Welby. Il giudice lo definisce una grande conquista civile, ma «manca dei decreti attuativi». Dunque pone molti problemi pratici. «Nel corso degli anni - scrive il magistrato - è profondamente mutato il modo di intendere il rapporto medico-paziente, e il segno di questa trasformazione è nella rilevanza assunta dal consenso informato, che ha spostato il potere di decisione del medico al paziente». E poi c’è il concetto di accanimento terapeutico, i cui confini nell’ambito dell’ordinamento, sono «incerti ed evanescenti e manca una definizione condivisa ed accettata». «Manca inoltre - continua il giudice Salvio - la definizione di quando l’insistere con trattamenti di sostegno vitale sia prassi ingiustificata o sproporzionata». E soprattutto la sentenza ricorda che «non esistono linee guida di natura tecnica ed empirica di orientamento del comportamento dei medici». Parole che hanno soddisfatto i medici. Questa sentenza è solo una conferma di quanto andavano ripetendo nei giorni scorsi sulla «incertezza delle legge e le difficoltà, non solo etiche, dei medici», spiega Amedeo Bianco, presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici. Divisi i costituzionalisti. Michele Ainis: «È prevalsa la logica dello scaricabarile: la politica ha rimbalzato sui giudici che a loro volta hanno lasciato i medici con il cerino in mano». E a Welby suggerisce la strada dell’«obiezione di coscienza: staccare la spina sarebbe giustificabile di fronte a un tale vuoto». Ipotesi che un altro costituzionalista, Cesare Mirabelli, rifiuta: «Obiettare significa sottrarsi a un comportamento doveroso, ma in questo caso un obbligo nell’ordinamento non esiste».

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Non solo Ponzio Pilato, ma incapaci di prendere una decisione. Manca il coraggio di dare un precedente.
Probabilmente c'è la speranza che si risolva per l'intervento del destino e non di una decisione umana.
Sabry


(Pubblicato dalla coblogger Sabry65)

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