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giovedì 18 ottobre 2007

Il mio passato e un pensiero, per quel che vale


ANNI '60, ANNI'70,
E DOMANI.


Quando ero piccolo, e andavo alle elementari, capitava molto di frequente di vedere per la strada persone strane.
Alcuni venivano definiti “focomelici”. I focomelici avevano le mani quasi attaccate alle spalle, i piedi quasi alle ginocchia. La sciagurata conseguenza di un farmaco terribile, dato alle loro mamme quando erano in loro attesa. Errori della scienza.
Non era una colpa, essere focomelico. Ma io, da bambino, li temevo, ne avevo orrore. Io non ero come loro.

Quando ero piccolo, si vedevano spesso per Milano i “mutilati di guerra”. Uomini, di solito, che allora avevano una quarantina d’anni. Chi senza una mano, chi senza un piede, chi senza un occhio.
Mi facevano orrore, e io scappavo da loro. Ma non è una colpa essere stati feriti da una bomba.
Però – mi dicevo – loro non sono come me.

Poi ci fu il famoso “terremoto del Belice”, una specie di catastrofe che rase al suolo centinaia di villaggi in Sicilia, se ben ricordo nel ’67. Io andavo in terza elementare.
Arrivò dalla Sicilia un bimbetto spaventato, non ricordo ora come si chiamasse, che non parlava nemmeno. Capiva l’italiano, anche se con fatica, ma non parlava se non nel suo dialetto, aveva negli occhi l’orrore. Gli fui vicino di banco per un anno scolastico, e comunicavamo quasi a gesti.
Ricordo che puzzava.
E io ne avevo paura. Ma non era colpa sua, se la casa gli era crollata addosso. E non era colpa sua, se stava in un alloggio dove lavarsi era difficile. Ma io ne avevo paura, mi dava fastidio stare vicino a lui. E purtroppo, credo di averglielo fatto capire. Perché eravamo diversi.

Quando ero piccolo, e mio padre era abbastanza ricco, vedevo spesso, per la strada, gli operai di allora, recarsi al lavoro. Tutti vestiti di blu.
Si saliva sull’autobus o sul tram, la mattina presto, per andare a scuola, e se ne sentiva l’odore.
Odore cattivo, di sudore umano.

E io ne avevo paura. A casa mia avevamo due bagni, eravamo pulitissimi.
Credevo fosse una colpa, quella di non potersi lavare.
E ne avevo paura.
Siccome moltissimi operai arrivavano dal Sud Italia, parlavano dialetti che per me erano stranieri: siciliano, calabrese, napoletano, sardo… Mi dicevano che erano differenti. “Meridionali”.
E la mia gente li identificava subito, con quella parola tremenda: “E’ un terrone”.

Poi c’era la mia famiglia.
Che studiava la storia e il latino, che aveva due bagni. Un lusso ernome, per l'epoca.
C’erano i miei nonni, con i quali parlavo in dialetto, ma che si arrangiavano a imparare l’italiano da me, che studiavo.

C’erano i miei genitori, le mie sorelle maggiori, che parlavano con me in un italiano corretto, e la maestra, che ci correggeva amorevolmente.
E mio padre che raccontava, davanti a una tavola imbandita, barzellette sui "terroni".
Quegli stessi "terroni" che si spaccavano la schiena ogni giorno per imbandire la sua tavola. Ma quegli stessi “terroni” erano pieni di gentilezza, con me piccolo, proprio come quelli che parlavano in milanese.

Quel bambino siciliano, non l’ho più rivisto.
Non so che fine abbia fatto.

Anni dopo ero un giovanotto, ci fu il terremoto in Friuli, era il ’76.
Mi ritrovai ad aiutare.
Soldati, pompieri, infermieri, altri ragazzi in divisa come me.

Si sentivano lingue diverse, si sentiva il romanesco mescolato al friulano, il milanese col napoletano, la parlata sicula con quella genovese, e così via.
Ma nessuno, nessuno di noi, lo giuro, in quel momento si sentiva lombardo, o piemontese, o ligure, o siciliano.
Ci si sentiva italiani, e basta. Come me, uguali.

Scoprii che la puzza di quel bambino che mi aveva fatto da compagno di banco silenzioso, per un anno, era la puzza della sfortuna.
Perché è l’odore di chi ha perso tutto. E dopo un mmese di Friuli, tornando nella mia casa pulita, la mia camicia aveva ormai lo stesso odore.
Lo avrei risentito, tanti anni dopo, in Cina, in Perù, nel Sinai.

Chi è stato in un’area terremotata, chi ha vissuto i bombardamenti, chi ha visto quelli che hanno perso tutto, la riconosce subito, quella puzza.
E’ puzza di sudore, di gente sfortunata. Di paura. Puzza di squallore. Fetore di morte, di sofferenza inutile.
Ma anche odore di gente che se potesse lavarsi, avere un bagno, un lavoro decente, una casa pulita, sarebbe contenta. Gente che non avrebbe nessuna voglia di pulire i vetri ai semafori, di prostituirsi all’angolo della strada, di vendersi a un racket, ma vorrebbe fare il proprio mestiere, imparato da giovane: il panettiere, il libraio, l’autista, l’ingegnere, l’infermiera, il tassista, il calzolaio, l’insegnante.

E invece i loro bambini magri si trovano di fronte la faccia spaventata di un bambino come me: grassottello, che si lava tutti i giorni, e che ha paura di loro. E si crede diverso, migliore.

Quale sia la morale di tutto questo, non saprei.
Spero solo che chi oggi ha circa 20 anni e anche meno, ci pensi un po’ su, quando vede una camicia verde.

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